European University Institute

Rileggendo lo Statuto dei Lavoratori nell’Italia del maggio 2020, appare evidente come, più che conquiste assodate, i diritti in esso sanciti rimangano a tutt’oggi nodi aperti, terreno attuale e urgente di scontro e conflitto. Nel momento in cui l’Italia si appresta ad uscire dalla fase acuta dell’emergenza Covid19, l’articolo 9 sulla salute e la sicurezza sul lavoro è uno di quelli la cui attualità appare più che mai lampante. Così legge: “I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.”

L’articolo 9 nasceva di un contesto storico in cui i rischi fisici legati all’attività lavorativa toccavano livelli drammatici. Nel 1970, secondo le serie storiche dell’INAIL, in Italia si registrarono 3,675 infortuni mortali sul lavoro – circa 10 al giorno. Da allora, grazie agli avanzamenti legislativi, alle lotte dei lavoratori conto infortuni e nocività, e all’azione preventiva di sindacati e rappresentanze dei lavoratori sui luoghi di lavoro, la situazione è, per fortuna, migliorata. Ma le criticità rimangono tantissime. Nel 2019, gli incidenti mortali sul lavoro in Italia sono stati 1,089. ‘Solo’ circa 3 al giorno, ma comunque, 1,089 di troppo. Morti che nella maggior parte dei casi rimangono invisibili e taciute.

Con tutti i limiti di una narrazione marcata dal contesto emergenziale, l’esperienza del Coronavirus ha quantomeno contribuito a spezzare parzialmente questa invisibilità e riportare il tema della salute e della sicurezza su lavoro all’attenzione del dibattito pubblico e politico italiano. Questa problematica si è affermata nella sua manifesta urgenza nel momento in cui il semplice fatto di continuare a recarsi fisicamente nei luoghi di lavoro si è andato configurando come un potenziale rischio per la salute della forza lavoro nella sua interezza – e non solo per quelle minoranze, per l’appunto solitamente poco visibili, impiegate in occupazioni particolarmente esposte a rischi occupazionali.

All’universalità potenziale del rischio del contagio da Covid19, però, non si è accompagnata un’universalità effettiva delle tutele contro di esso. Al contrario, la pandemia ha fatto emergere nuove fratture e fonti di diseguaglianza nel mercato del lavoro italiano, come sottolineato da Luca Cigna in un recente contributo. In particolare, si sono manifestate diseguaglianze – in termini di esposizione a diversi rischi e corrispettivo accesso alle tutele – tra componenti della forza lavoro in grado di avvalersi della possibilità di lavorare da casa (circa il 30%, secondo le stime di Cetrulo, Guarascio e Virgillito – il 60% dei quali impiegate nella parte medio-alta della struttura occupazionale) e quelli per cui invece questo non è possibile; e tra gli occupati in comparti designati come ‘essenziali’, e dunque rimasti operativi con modalità ‘in presenza’ durante il lockdown, e quelli ‘non essenziali’. Mentre per i lavoratori ‘non essenziali’ e non in grado di lavorare a distanza il principale rischio posto dalla pandemia è stato di natura reddituale, per i lavoratori dei comparti essenziali che hanno continuato ad operare ‘in presenza’ la principale fonte di rischio è emersa proprio sul fronte della tutela della salute e della sicurezza e della protezione dal rischio di contagio.

Dall’inizio del lockdown, questo tema è stato oggetto di crescente politicizzazione e conflitto – soprattutto in quei comparti produttivi in cui la mancanza di tutele contrattuali adeguate ha esposto le lavoratrici e i lavoratori ad un effettivo ricatto, forzandoli a scegliere tra la tutela della propria salute da un lato, e l’accesso al reddito e dunque alle possibilità di sussistenza dall’altro. Un esempio di un settore in cui questa tensione si è manifestata in maniera paradigmatica è quello dei servizi di consegna gestiti tramite piattaforma e afferenti all’universo variegato della gig economy.

I servizi di consegna a domicilio, piattaforme incluse, sono stati designati durante il lockdown come attività essenziali, in quanto funzionali a sostenere almeno parzialmente il settore della ristorazione e altri servizi commerciali rimasti chiusi. A differenza dei lavoratori di altri comparti essenziali, però, a causa del loro inquadramento come lavoratori autonomi i ‘riders’ delle piattaforme non hanno né accesso agli ammortizzatori sociali pensati per il lavoro dipendente, né la possibilità di usufruire di ferie o congedi per astenersi temporaneamente dal lavoro, né, nella maggioranza dei casi, diritto alla malattia in caso di contagio o quarantena obbligatoria. La decisione se continuare a lavorare o meno durante la pandemia, svolgendo un’attività ad alto rischio che comporta contatto costante con il pubblico, si è dunque configurata per la stragrande maggioranza come una scelta forzata tra mantenere l’unica propria fonte di reddito disponibile, e salvaguardare la propria salute.

Il tema della sicurezza sul lavoro nella gig economy urbana non è certo nuovo. Da più di tre anni, i riders delle piattaforme del food delivery in tutt’Italia (ed Europa) si mobilitano per rivendicare, oltre alle varie tutele del rapporto di lavoro subordinato, anche l’accesso ad adeguate protezioni sia fisiche, come caschi e luci, che operative, come la sospensione del servizio in caso di maltempo, che previdenziali, contro i rischi per la salute a cui il loro lavoro in strada li espone. Il coronavirus, però, ha aggiunto una nuova dimensione a questa problematica. Dall’inizio dell’emergenza Covid19, infatti, i riders hanno riscontrato grandi difficoltà nell’ottenere dalle piattaforme di delivery adeguate forme di prevenzione contro il contagio durante lo svolgimento dell’attività lavorativa. Molte piattaforme hanno inizialmente cercato di svicolare dall’obbligo di fornire loro adeguati dispositivi di protezione individuale come guanti, mascherine o gel sanitizzante, giustificando questo lassismo proprio in funzione dell’inquadramento dei riders come collaboratori occasionali. Anche la responsabilità di adottare comportamenti volti a prevenire il contagio durante le consegne è stata inizialmente lasciata all’iniziativa dei singoli lavoratori. E dato il mancato adeguamento delle procedure operative da parte delle piattaforme e dei ristoranti, i riders si sono spesso trovati a dover affrontare situazioni rischiose di assembramento nel momento di ritira delle consegne del cibo dai ristoranti, impossibilitati a mantenere le giuste distanze di sicurezza.

Questa situazione ha reso palese l’attualità e l’importanza dei princìpi sanciti proprio nell’articolo 9 dello Statuto dei Lavoratori richiamato sopra. Centrale, nella formulazione dell’articolo, è infatti non solo l’affermazione di un principio generale di diritto alla tutela della salute, ma soprattutto il diritto dei lavoratori ad intervenire in salvaguardia di essa, controllando e promuovendo l’applicazione delle norme di protezione. Un diritto, cioè, ad esercitare la propria ‘agenzia’ in difesa della salute. Come possono però i lavoratori della gig economy, fortemente ricattabili e privati, nella maggior parte dei casi, di accesso agli usuali canali di rappresentanza sindacale (come ad esempio del diritto ad eleggere i rappresentanti per la sicurezza), effettuare adeguatamente questa attività di controllo per tutelare la propria salute e la loro integrità fisica?

Anche in questo frangente come in numerosi casi pregressi, l’esercizio dei diritti è stato rivendicato e messo in pratica dalle lavoratrici e lavoratori tramite la mobilitazione, l’organizzazione e il conflitto. Già dalle prime settimane di lockdown, in diverse città italiane i ciclofattorini hanno infatti intrapreso iniziative e campagne per rivendicare il proprio diritto alla salvaguardia della salute, sia per canali legali che di mobilitazione. E queste iniziative hanno dato frutti. In seguito al ricorso presentato per vie legali da un ciclofattorino supportato dal NIDiL-CGIL, il tribunale di Firenze ad inizio aprile ha ordinato alla piattaforma JustEat di dotare a proprie spese tutti i corrieri dei dispositivi di protezione individuale durante l’emergenza sanitaria, estendo di fatto per la prima volta il diritto antinfortunistico ai lavoratori delle piattaforme. A fronte delle pressioni mediatiche e delle iniziative di piazza dei collettivi auto-organizzati e dei sindacati autonomi dei riders a Milano e Torino, la piattaforma Deliveroo si è impegnata a garantire due settimane di paga per malattia per i lavoratori ammalati o sottoposti ad obbligo di quarantena. E a Bologna, di fronte ai ritardi da parte di tante piattaforme nel fornire protezioni, sono stati i riders stessi a prendere direttamente nelle proprie mani, tramite la rete organizzativa del loro sindacato Riders Union, la responsabilità di promuovere e attuare a livello pratico le norme anti-contagio, prima ottenendo dal Comune la messa a disposizione di 500 mascherine e poi distribuendole tra i lavoratori in maniera auto-organizzata.

La partita per il diritto alla tutela della salute nella gig economy non è certo chiusa. Ma la traiettoria dei conflitti sulla salute e la sicurezza sviluppatisi nel settore durante la pandemia offre spunti di riflessione più che mai utili per il mondo del lavoro in generale in questa ‘fase 2’ dell’emergenza sanitaria, in cui l’Italia si prepara alla riapertura e l’universo imprenditoriale si affretta a declinare le proprie responsabilità penali in caso di contagio da Covid19 sui luoghi di lavoro. Le lotte dei riders durante il Covid19 ci riportano infatti proprio alle origini dello Statuto dei Lavoratori: ricordandoci che i diritti sono spesso conquistati tramite il conflitto, e che ci vuole azione collettiva e esercizio dell’agenzia delle lavoratrici e dei lavoratori per sostenerli, rivendicarli, renderli vivi e applicabili – nei luoghi di lavoro come nella società più in generale.

Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 81368\