All’indomani del 26 giugno 1983 diventa un episodio politico di rilievo nazionale l’affermazione della Liga veneta. Due inattesi neo-parlamentari – un ambulante di Montebelluna, un professore padovano di Istituto d’arte – fanno notizia già di per sé; eppure gli interrogativi della stampa – i politologi seguiranno fra qualche tempo, a calcoli post-elettorali esauriti – resterebbero al limite della curiosità per un capitolo di folclore se il successo della Liga (+4,22%) non coincidesse con il parallelo insuccesso della Democrazia cristiana (-7,55%).

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Elettoralmente qualcosa si muove anche nel Veneto, insomma, nel regno stesso del partito-società. Del resto un valore di preannuncio simbolico aveva assunto, nelle prime ore di spoglio delle schede, proprio il profilarsi sugli schermi di tutti gli italiani dei risultati assolutamente inauditi del collegio di Cittadella: oltre dodici punti percentuali in meno alla Dc. Il collegamento – sconfitta della Dc, vittoria della Liga – nasce immediato.

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Se hanno perso i democristiani non hanno vinto le sinistre (il Pci passa dal 21,72 al 20,79%, il Psi dal 9,56 al 10,65), e semmai una funzione di surroga si manifesta per un partito di proposta e di programma – quello repubblicano – che funge da collettore della ‘protesta’ moderata e perbenista in una ormai avviata crisi di rigetto del vecchio grembo di appartenenza proprio nei luoghi eponimi del suo potere (Treviso, Padova, Vicenza, Verona, l’Ampezzano).

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Diventa invece essenziale porsi il problema dell’apparizione e della fulminea partenza della Liga. E questo sotto almeno due aspetti, di minima e di massima: ci si può cioè chiedere se si tratti di un rigurgito di provincialismo tardo-veneto, reso significativo solo dal fatto di manifestarsi nella regione storica del cattolicesimo politico (…); ovvero ci si può domandare se l’esordio aggressivo del nuovo movimento, anziché segnalate modesti smottamenti di opinione in una marca di frontiera, non preluda a più vasti, risoluti e potenzialmente rovinosi orientamenti disgregativi degli assetti tradizionali, atti a mettere in forse gli equilibri di potere e le fasce di influenza elettorale passando dentro e fuori i sentieri conosciuti.

Muniti di questi interrogativi, sostanzialmente, e di approssimative notizie su sussulti xenofobi, verificatisi negli ultimi anni, nelle zone del Veneto dove poi sembrerebbe aver piantato qualche radice la Liga, partono per ricevere lumi gli inviati dei maggiori giornali. Trovano una situazione di non facile decifrazione, anche in ragione dell’avarizia programmatica della nuova formazione rispetto alla debordante retorica dì una “veneticità” di cui si autoattribuisce la rappresentanza senza risparmio di proclami in lengoa veneta. Che l’emergenza elettorale corrisponda a una fase di movimento – o di movimentismo – non privo di sostegni e di rispondenza sociale, può comunque essere dimostrato proprio dalle frequenti scritte anti-meridionali che costellano a caratteri cubitali ponti e autostrade, o anche muri rustici e cittadini, e che nessuno si sogna di cancellare (a differenza di quanto da ultimo risulta essere avvenuto per exploits epigrafici non dissimili in area trentina o sud-tirolese). Il tremendismo di queste parole d’ordine (“A morte i teroni”, “Fora i romani”, “Forsa Etna”), in unione con il loro rimanere in bilico con la parodia e il grottesco, e la circostanza che i dirigenti della Liga abbiano spesso dichiarato di non riconoscersi in un siffatto massimalismo verbale – sulla cui scorta si sarebbe colpevolizzata la loro creatura come organizzazione inficiata di razzismo – sembra essere la spia di un qualche radicamento del gruppo in alcune zone della psicologia popolare: se risulta un po’ fantasiosa l’ipotesi di ‘nemici’ della Liga che vanno in giro a riempire di frasi compromettenti il Veneto (…) per liquidare un concorrente coinvolgendolo in sospetti infamanti, molto più realistico appare ammettere l’esistenza di un alone di supporto dove liberamente si traducono, aggiungendo un po’ di aceto, i postulati ufficiali del “Veneto a i Veneti”. Il secondo tratto evidente nella miscela ideologica, che può contribuire a spiegare l’inopinata convergenza di voti su questa stella “diversa” del firmamento politico, consiste paradossalmente nell’antica e però negli ultimi anni intensificata e sempre più rabbiosa e meno remissiva querela contro i ‘troppi’ partiti, il loro regime, la loro lontananza dalla vita del-la gente, Roma imperscrutabile e distante. “Fora i romani!”, apparato burocratico non escluso: tant’è vero che, a imitazione dell’invocazione “Forsa Etna”, sembra aver fatto la sua comparsa anche qualche “Forsa marea!”, in cui la vendetta dei flutti viene evidentemente auspicata per la regionale sede del ‘Palazzo’. Par di assistere a un radicalismo dei moderati che, negli anni settanta, può anche aver trovato autorizzazioni a procedere, motivi di consonanza e pezzi di vocabolario comune con il radicalismo dei radicali. La ‘lega’ dei senza-partito, dei contro-partito, degli uomini della strada: il non-partito, autoproclamatosi tale e auto-delegato a raccogliere la stanchezza e il rancore che sono il sintomo di ricaduta dei partiti, di tutti i partiti, e del loro quarantennale potere. Ma che cosa interviene a differenziare il nuovo fenomeno da una risorgiva del vecchio qualunquismo nazionale, e magari – per l’appunto – meridionale? Dov’è propriamente il Veneto, in tutto ciò?

A questo punto – messi sull’avviso dagli slogan marcheschi e dalla vulgata dialettale e italofoba – si può constatare che il sentimento di non-appartenenza al sistema dei partiti evapora e sfuma in una non-appartenenza al sistema-Italia: che questo chiamarsi fuori si esprime tanto con una desolidarizzazione del punto di vista statuale e grande-nazionale quanto con l’enfatizzazione del bozzolo di una “piccola patria”, e però nazione pur essa, il Veneto; e con un’attitudine da ricuperanti nella mobilitazione affastellata dell’arsenale dei reperti e degli echi di un passato proprio, autoctono, vendico appunto. Venezia, s’intende l’antica Repubblica, il suo sereno e imparziale amministrare, la sua secolare durata, non possono non fare la parte del Leone per ovvie ragioni di identità da affermare in via breve: vellicando quel tanto di orgoglio e di gratificazioni residuali – e passando sopra ai non sempre lineari rapporti fra la città lagunare e la terraferma – che può essere utilmente messo a frutto. Si tratta, insomma, di esibire i propri quarti di nobiltà e di certificare il possesso di un passato storico preunitario, un remoto e accertato statuto di popolo-nazione-stato, già lungamente autonomo. Dialetto e Leone di San Marco parrebbero in qualche misura avere funzionato complementarmente alla nausea e all’astio per i partiti: contro i partiti tradizionali una tradizione precedente; più lusinghiera e confortevole; contro la crisi delle identità e del sentimento di appartenenza – politica, ma anche religiosa – la riproposta dello stesso bisogno sotto forma di identità proiettata nel passato. Si tratta solo del rivestimento corticale di una lotta di concorrenza per i posti di lavoro nel terziario (scuole, poste, uffici pubblici) che scarica sull’immigrato meridionale la frustrazione che si prova davanti a un mercato fattosi saturo, colorandola surrettiziamente di va-lori pregressi? O c’è qualche cosa di più alla base dell’amalgama, magari un’irresistibile nostalgia per le armonie dell’agroindustrialismo, per una possibilità di autoriconoscimento e di comunicazione di cui la lingua d’uso – il dialetto, certamente ridotto a una scialba koiné ma tuttora più vi-tale in area veneta che altrove – rappresenta il vettore preferito?

Anche la dimensione meno gradevole dell’identità ‘leghista’ – quella che afferma una diversità per antitesi postulando un’incoercibile alterità rispetto ai “teroni”, nonostante ogni loro sforzo di affettare un’improbabile parlata locale – può forse richiamarsi a fondamenti non esclusivamente di ritorsione. L’inclinazione all’apartheid allude infatti all’esserci, qui, o all’esserci almeno stata, una società strutturata e funzionante, a suo modo equilibrata e organica, rispetto alla quale i nuovi venuti appaiono intrusi nella misura in cui provengono o concordemente si suppone che provengano da un mondo disorganizzato, fallito, incapace per antonomasia di bastare a se stesso. È questa dissociazione di mondi sul crinale delle immagini rispettive dell’operosità e dell’efficienza che facilita il lievitare di una propensione antimeridionale e non di una generica avversione per i “foresti” (nessuna ostilità si avverte per gli immigrati di origine settentrionale, in ragione anche dei numeri, perché i “tenoni” si accorpano, sono tanti, si distinguono a vista, mentre altrettanto non può dirsi dei lombardi o dei piemontesi). “Meridionale”, inoltre, vuol dire commissario di polizia e spesso carabiniere. Qui trapela, sullo sfondo, il problema dei rapporti con lo stato e con le strutture e gli uomini del suo ordinamento giuridico. Sarebbe certo improponibile introdurre il sospetto di un insufficiente legalitarismo dei veneti. Vero è tuttavia che i contrastati rapporti fra chiesa e stato hanno potuto sotterraneamente mantenere in stato di ibernazione una sorta di sospensiva che – specialmente nelle campagne – poteva anche comprendere un irrisolto nodo di legami con l’Austria. Sarebbe difficile, oggi, ancorare a documenti inoppugnabili quella venatura, nell’idealizzazione di un ordine passato sconvolto da inconsulte modernità, che può trovare nominazione nel governo degli Asburgo (anche se dal Friuli e dalla Venezia Giulia giungono spesso notizie di coreografie ‘imperiali’); resta vero comunque – in una regione dove la sovranazionalità degli apparati ecclesiastici ha sempre impedito il trapasso dal regionalismo all’autonomismo – che il sedime del paterno reggimento austriaco può contendere alla memoria marchesca della Serenissima il ruolo di paesaggio istituzionale entro cui iscrivere la Heimat. E l’Italia? L’Italia è assente, come nazione e come stato. È il non-essere, la indebita forzatura istituzionale delle longevità storiche. Si può ritenere che abbia contribuito a rendere possibile questa in-differenza ai confini e alle scelte di campo delle patrie memorie, la particolare collocazione geografica della regione, che ha sempre reso scorre-vole il travaso di uomini e di esperienze attraverso i passi alpini del nord-est molto più che gli scambi fra le aree frontaliere e i territori affondati a sud. Come già si è fatto cenno a suo luogo, si potrebbero ricordare le analogie di percorso che accomunano – con le cooperative, le casse rurali, le iniziative associazionistiche – le genti del Veneto, del Trentino e del Tirolo fra Otto e Novecento. Un’inflessione ‘tedesca’ non si affida solo ai buoni rapporti fra la Baviera (…) e la Comunità dei sette comuni dell’Altipiano di Asiago, manti tramite lo studio della cultura ‘cimbra’ che evoca una comune placenta etnologica: un’esperienza mitteleuropea, di genti trascinate più a settentrione che a mezzo ano, è inumata nella vicenda storica di tutto il Veneto, veneziano e non. (…)

Quale che sia il giudizio da dare sull’idea di una carta del continente ridisegnata a misura di autonomie, va riconosciuto fin d’ora che la Liga veneta, cosi com’è, appare un mero epifenomeno, tutt’altro che all’altezza di un nobile domani.

 

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