Nell’immagine, un’incisione dal titolo “The British Workman”, gennaio 1872
Intervista a Sabina Bologna a cura di Ilaria Giuliani, sul documentario Oltre il ponte.
Nato da un’idea di mio padre, Sergio Bologna, questo documentario andrà a far parte del patrimonio espositivo del Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia. Documenta la trasformazione di un quartiere di Milano da centro di attività industriali a zona dedicata al design, ai media, all’informatica, alla moda… Una zona diventata brand, chiamata Zona Tortona, e considerata una delle più alte concentrazioni di classe creativa al mondo. Dall’epoca post-industriale testimonia i cambiamenti degli spazi, degli stili di vita, dei modi di lavorare.
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Come è riuscita a raccontare la metamorfosi di un intero quartiere, Zona Tortona, guardando ai cambiamenti del mondo del lavoro e utilizzando lo strumento del
documentario e quindi del linguaggio artistico e visuale?
Mio padre, Sergio Bologna, si occupa da sempre di queste questioni. E’ stata sua l’idea, passeggiando nel quartiere in cui abita. Abbiamo preso contatti con i vecchi operai delle grandi fabbriche di elettromeccanica che sono diventate oggi luoghi di lavoro della cosiddetta creative class, e abbiamo intervistato chi ci lavora oggi. Il quartiere è solo un pretesto per parlare della trasformazione del lavoro.
L’utilizzo del materiale di repertorio – fotografie, materiale d’archivio e films – è stata una delle chiavi narrative per passare dal passato al presente, mettendo la macchina da presa
negli stessi punti di vista. I cantieri, gli spazi raccontati e le parole fuori campo hanno fatto il resto. La Fondazione Micheletti di Brescia ha tutto il materiale girato, circa 80 ore tra interviste e immagini, spero che potrà essere un archivio prezioso, per i documentaristi del futuro. La memoria è cosa importante, dove andranno a finire tutti i files dei filmakers come me che per anni hanno ritratto il nostro tempo e ora custodiscono questa memoria negli hard disc? Hard disc che non si potranno più aprire?
Via Tortona, Milano
Come è stata costruita la relazione tra il suo ruolo di lavoratrice, che oggi potrebbe essere definito di creativa, e il racconto di un tipo di lavoro che non esiste più in quel territorio, cioè quello legato alla produzione materiale?
Nel periodo in cui ho girato il documentario c’erano ancora la Fondazione Pomodoro, una grande officina artigiana e i Laboratori del Teatro alla Scala (gli ultimi sono ancora lì). Credo che la produzione materiale ci sia ancora: la moda, il design, l’arte contemporanea… Quello che è cambiato radicalmente sono le condizioni di lavoro, nel bene e nel male. Non si stava meglio quando si stava peggio, certo, ma la relazione con il proprio lavoro era molto differente. Conosco poche persone che lavorano tutta la vita nello stesso posto, con un contratto a tempo indeterminato, almeno questo è quello che vedo nel mio ambiente, nella mia città.
E’ stato un lavoro lungo due anni e non è stato semplice parlare con i lavoratori di oggi, le nuove generazioni hanno più difficoltà a parlare delle problematiche del lavoro, perché fondamentalmente hanno paura. Io stessa, che faccio il direttore della fotografia e l’operatore, sono molto restìa a parlare del mio lavoro, soprattutto in termini critici. Puoi essere sostituito molto facilmente, sei solo. Una volta gli operai, essendo una grande forza
unita, si sentivano invece molto forti e orgogliosi delle proprie battaglie.
Nell’epoca dell’industria simboli come la chiave inglese o l’ingranaggio erano dotati di un grande potete evocativo. Oggi quali sono i simboli che raccontano, invece, tutti quei lavori legati alla cultura, alla creatività e più in generale all’innovazione tecnologica? Come possono essere rappresentati tutti quei lavori che per definizione sembrano essere più intangibili poiché producono conoscenza, valori estetici, servizi e dati?
Sì, una volta era la chiave inglese, oggi delle schede di memoria. Pur utilizzando la macchina da presa, il cavalletto, le luci, il mio “prodotto” sarà per sempre un file. Niente più “pizze” in pellicola, proiettate nei cinema. L’immaginario delle fabbriche di una volta e di chi ci lavorava ha un gran fascino, si sa, e una connotazione ben precisa. Rappresentare i cosiddetti “lavoratori della conoscenza” è molto difficile e si rischia di cadere nella retorica. Anche nel cinema vedo faticoso il racconto di questi personaggi, basti pensare che quando si affronta il problema del lavoro precario, l’immaginario cade sempre sui call center. Un computer, uno spazio co-working, un cellulare, saranno sempre meno intriganti. Allora si lavora sui visi, sui gesti, talvolta anche sui luoghi, che raccontano tanto, anche se sono delle squallide sale riunioni, con le pareti spoglie. Quello che conta è lo sguardo su una scena e l’atmosfera che ti trasmette.
Credo che il paesaggio urbano possa riflettere molto su chi lo abita e lo frequenta. Zona Tortona aveva le Case dell’Umanitaria dove vivevano le famiglie di operai, hanno trascorso la propria vita in quel quartiere, mentre chi ci lavora oggi ci sta per una settimana o
qualche mese, poi se ne va, così com’è venuta.
Lo skyline di Milano riflette una città diversa da quella in cui sono cresciuta, ma è sempre lei: la città in cui si lavora e basta. E si cerca di trovare luoghi di resistenza. Solo negli ultimi anni è diventata anche una città amata dai turisti, cosa che a noi milanesi sembra impossibile!