Donne in Italia, facciamo il punto. Nonostante gli importanti progressi fatti dalle italiane per affermare il loro ruolo nella vita pubblica, i dati ci raccontano una società che le risospinge nella sfera domestica.

Oggi sono occupate il 48,9% in età lavorativa. È il numero più alto di sempre, ma va guardato con sospetto perché è dovuto in parte all’innalzamento dell’età pensionabile e perché, c’è bisogno di ricordarlo, siamo ancora distanti dalla media europea del 65,3%. Tra i paesi Ocse l’Italia è al quarantunesimo posto per partecipazione femminile al mercato del lavoro, al terzo per tasso di inattività ed è seconda in Europa, dopo Malta, nel gap di genere (ossia la differenza percentuale di uomini e donne che partecipano al mercato del lavoro). Di contro le ragazze investono tempo e risorse nel loro progetto lavorativo: studiano più dei ragazzi e ottengono risultati migliori, peccato che i loro sforzi spesso non le portino da nessuna parte.

 

Referendum 1946

 

C’è un dato che più di tutti racconta quanto il nostro non sia un paese per donne: dopo la maternità una su quattro perde o lascia il lavoro. Il 77% delle dimissioni volontarie ha riguardato le lavoratrici madri, e dal 2015 al 2016 sono aumentate del 44% quelle legate alle difficoltà a conciliare il lavoro e la vita personale. Questi numeri sono esemplari perché parlano di un mercato del lavoro e di uno stato sociale incapaci di trasformarsi per far fronte ai cambiamenti sociali, a partire dalla sempre più numerosa presenza delle donne nei luoghi di lavoro. Ma sono numeri che parlano anche delle relazioni affettive e di come gli uomini non sostengano le donne nella loro progettualità lavorativa. Gli uomini italiani sono, infatti, quelli che in Europa partecipano meno al lavoro domestico e di cura.  Il risultato è una natalità bassissima.

Cosa succede quando le donne invece ce la fanno e hanno un lavoro? Molte sono costrette al part time involontario, hanno salari più bassi degli uomini, spesso hanno un titolo di studio più alto delle mansioni che svolgono e la loro carriera generalmente si blocca a livello intermedio.

1 milione 173mila è il dato più preoccupante su donne e mercato del lavoro: è il numero di quelle che dichiarano di essere state ricattate sessualmente nel corso della propria carriera per essere assunte, per mantenere il posto di lavoro o per ottenere progressioni. Qualcuna ce la fa ad avere una carriera di successo, anche se purtroppo guadagnare più del proprio compagno aumenta sensibilmente le possibilità di subire violenza domestica.

Eppure le donne rimangono le grandi assenti nel dibattito politico. Nonostante il rapporto tra donne, indipendenza economica e lavoro sia un nodo cruciale che almeno metà della nostra società affronta oggi, non è stato un tema della campagna elettorale. Anzi, la campagna elettorale è stata principalmente un gioco tra maschi: leader, commentatori, esperti erano nella stragrande maggioranza uomini. Tanto che, alle prime elezioni nazionali con alternanza di genere, molti partiti hanno ovviato con candidature plurime riducendo significativamente il numero delle candidate. Nei programmi della sinistra qualcosa sul ruolo delle donne c’era ma nessuno ha pensato che potesse essere un tema cardine da portare avanti, nei programmi di destra ci sono solo mamme e nei programmi 5 Stelle la parola “donna” non viene mai usata.

La miopia politica di chi si è candidato a guidare il paese non gli ha permesso di vedere come le donne negli ultimi anni abbiano preso parola e spazio nel discorso pubblico e generato dibattito e partecipazione. Il tentativo di contrastare la violenza degli uomini ha portato alla costruzione della manifestazione nazionale nonunadimeno del 2016, alla definizione di una piattaforma di proposta politica e il ritorno in piazza nel 2017. Il femminismo è l’unico movimento politico che negli ultimi anni, fuori dai partiti, negli ultimi anni è riuscito a mobilitare e aggregare.

Nel 2017 con l’hashtag #quellavoltache le italiane raccontano iniziano a far rimbalzare su Facebook e Twitter storie di abusi ordinari, denunciando la diffusione e la sistematicità delle molestie e la violenza sessuale. Poco dopo si diffonde il #metoo, che in Italia non ha gli effetti dirompenti che ha avuto negli Stati Uniti, ma solleva nuovamente un dibattito sulle molestie a lavoro, 124 attrici sotto la sigla “dissenso comune” firmano un manifesto oro che viene sottoscritto anche da più di duecento giornaliste.  Da niunamenos in Argentina alla Women’s march statunitense, alla Polonia all’India, il movimento delle donne ha assunto una dimensione internazionale: ha un coordinamento, parole d’ordine comuni portate avanti in ogni paese insieme alle istanze locali.

Il prossimo 8 marzo 2018 si manifesterà in 54 paesi. Nel nostro, le donne devono essere un alleato cruciale per chi vuole pensare a un orizzonte di giustizia sociale. Sono le donne che infatti hanno moltissimo da perdere oggi: i populismi, i nazionalismi e gli uomini forti veicolano valori conservatori, e il rischio è di arretrare e vedere ulteriormente ristrette le libertà sia nella sfera pubblica che in quella privata.

L’invito dopo il 4 marzo e prima dell’8 è quello di ripartire dalle donne, nelle case, sul lavoro, in politica.

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