L’ABC del cambiamento climatico
Il 2017 è stato l’anno degli uragani: Harvey, Irma, Jose e Maria hanno devastato i Caraibi e parte degli Stati Uniti. E non si tratta di casi isolati. Secondo Friederike Otto, vicedirettrice dell’Environmental Change Institute dell’Università di Oxford, “nell’immediato futuro in tutto il pianeta toccheremo nuovi picchi di caldo e precipitazioni estreme”. Ma esiste un legame tra eventi climatici estremi e attività umana sulla Terra?
Evidentemente sì, se il premio Nobel per la chimica atmosferica Paul Crutzenconiò il termine Antropocene per definire l’epoca geologica che va dalla Rivoluzione Industriale ai giorni nostri in cui l’ambiente terrestre è fortemente condizionato dagli effetti dell’azione umana. In particolare, i processi di combustione innescati dall’attività umana emettono tali quantità di gas serra da alterare la composizione dell’atmosfera. Come evidenzia l’ultimo Rapporto di Valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), l’organismo internazionale guida per lo studio del cambiamento climatico, le emissioni di gas serra osservate dal 1750 hanno già destinato il sistema Terra ad un aumento della temperatura di 1,6 °C rispetto all’età pre-industriale nei prossimi cinquant’anni. Questo avrà effetti a catena quali lo scioglimento dei ghiacciai, con conseguente innalzamento del livello dei mari, e il mutamento dei cicli idrogeologici, che potrebbe comportare una totale scomparsa di alcuni climi regionali, con conseguente distruzione di interi ecosistemi. A questo va aggiunto l’aumento della frequenza e dell’intensità di fenomeni estremi quali inondazioni, siccità e uragani, che spesso andranno ad aggravare situazioni socio-economiche già critiche, o conflitti armati per le sempre più scarse risorse naturali del Pianeta.
Il tema dei mutamenti climatici è quindi cruciale, poiché rischia di provocare cambiamenti sociali senza precedenti. Se un domani, infatti, larghe fasce dall’Africa sub-sahariana diventassero troppo aride a causa della rapida espansione della fascia equatoriale, o se la Groenlandia si sciogliesse completamente, causando un innalzamento stimato di 7 metri del livello dei mari e intere isole e territori abitati venissero sommersi, come potremmo gestire la migrazione di intere popolazioni?
Il lago Ciad che evapora: le sponde del lago Ciad sono abitate da
15 milioni di rifugiati climatici
Cambiamento climatico e migrazioni forzate
Lo United Nation High Commissioner for Refugee (UNHCR) stima che dal 2009 ad oggi una persona al secondo ha perso la propria casa a causa di un disastro naturale o climatico, per un totale di 22.5 milioni di individui. Nella maggior parte dei casi le persone colpite trovano rifugio all’interno del proprio Paese, diventando Internally Displaced Persons (IDPs). Alcune però sono obbligate ad attraversare le frontiere nazionali per raggiungere un paese sicuro.
Ad oggi non esiste uno strumento normativo che garantisca la protezione dei migranti transazionali forzati da cause climatico-ambientali – i cosiddetti rifugiati climatici o migranti ambientali. La convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 1951, infatti, non considera i disastri causati dall’ambiente o dal clima come motivo alla base del riconoscimento del diritto d’asilo. Ai rifugiati climatici, quindi, non è garantito il diritto di entrare e risiedere in un Paese diverso da quello di origine. Ne è esempio il caso di Ioane Teitiota, cittadino originario di Kiribati, un piccolo stato-arcipelago nel Pacifico, espulso dalla Nuova Zelanda dopo aver richiesto asilo perché l’innalzamento del livello dei mari provocato dai cambiamenti climatici aveva messo a rischio la sua vita e quella della sua famiglia. La comunità internazionale è al lavoro per colmare questo vuoto normativo. La Platform on Disaster Displacement, un forum multi-stakeholders volto a implementare le raccomandazioni della Nansen Initiative Protection Agenda, approvata da 190 delegazioni governative nell’Ottobre 2015, mira a implementare standards e pratiche comuni per prevenire e gestire le migrazioni transnazionali legate agli effetti del cambiamento climatico.
I rifugiati climatici mettono in crisi la distinzione normativa tra migranti forzati e migranti volontari su cui si basa il sistema di protezione internazionale ed europeo. Se le previsioni dell’IPCC sugli effetti del cambiamento climatico si riveleranno corrette, un numero consistente di persone potrebbe trovarsi non ammesso ad alcuna comunità politica, e quindi senza diritti, invisibile e perseguibile.