Presidente onorario Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Il testo qui proposto è l’esito dell’iniziativa “Riflettendo ai tempi del Corona Virus. Conversazione con Salvatore Veca” organizzata dalla Casa della Cultura il 23 aprile 2020. A questo link è possibile seguire la conversazione tra Salvatore Veca e Ferruccio Capelli.


La prima riflessione riguarda l’esperienza del Covid-19 come esperienza globale, un drammatico promemoria e un terribile esperimento sociale dell’interconessione e dell’interdipendenza planetaria. Non solo dell’interdipendenza sociale o culturale, ma anche dell’interdipendenza naturale e biologica. Natura e cultura sono strettamente intrecciate.

Non è un cigno nero, ha detto Nassim Nicholas Taleb. Perché la storia dell’umanità è storia di conflitti con epidemie e pandemie: pensate alla peste di Atene, per non evocare la tragica peste di Tebe dell’Edipo di Sofocle; alle grandi pesti del ‘300 o a quella manzoniana del ‘600 europeo; nel ventunesimo secolo, alla Sars 2003; all’Aviaria 2009; a Ebola 2014-2016.

Tuttavia, quello di Covid-19 è il primo caso che coinvolge e affligge larga parte dell’umanità in virtù di una costellazione di circostanze naturali e sociali. Ma su questa connessione, che chiama in causa direttamente i rapporti fra l’ambiente o l’ecosistema e le scelte sociali, politiche ed economiche dovremo tornare più avanti. Con buona pace di Taleb, Covid-19 è stato percepito come un cigno nero. O, forse, un cigno perturbante, come avrebbe detto Freud. Nel vortice della tempesta, sembra di intravedere al tempo stesso il collasso di un modello di globalizzazione, già da tempo messo sotto pressione, e il disegno di un modello alternativo di interdipendenza e interconnessione planetaria. “Una sola umanità, un solo pianeta” è uno slogan compatibile con l’idea che “un altro mondo è possibile”.

La seconda riflessione mette a fuoco i rapporti fra scienza e politica. Che i decisori pubblici si avvalgano nelle loro scelte pubbliche dei differenti saperi scientifici, tecnologici, giuridici, economici, sociologici o culturali che siano, è un fatto a prima vista ovvio. Ma se ripensiamo alle recenti valutazioni negative della competenza nelle subculture populiste che ospitavano allegramente, all’insegna dell’”uno uguale uno”, no vax e terrapiattisti, la crisi della pandemia sembra far emergere una fiducia condivisa nel sapere scientifico di virologi, immunologi ed epidemiologi, nel nostro caso. Ma attenzione: come spesso accade, alla demonizzazione della scienza succede la sua santificazione. E, in ogni caso, il collasso di qualsiasi tratto di pensiero critico e riflessivo. Così, quando ci si trova di fronte al naturale confronto fra ipotesi o congetture alternative, del tutto familiare alla comunità scientifica, soprattuto quando è alle prese con un problem solving non di routine, per dirla con il classico Thomas Kuhn, l’incertezza intacca in modo semplicemente sbagliato e ingiustificato la fiducia scientifica dei neofiti.

Si osservi, inoltre, una nuova assegnazione di valore globale che va ascritta alla scienza, ma non può esserlo nello stesso modo alla politica. Questo suggerisce una tensione o, se preferite, una contraddizione fra il carattere globale di Covid-19, la risposta globale della scienza e della ricerca tecnologica e il carattere locale e contestuale della risposta politica alle sfide.


Terza riflessione: nelle differenti fasi del ciclo epidemico assistiamo a cambiamenti e, a volte, a tensioni nelle priorità per l’agenda dei decisori pubblici. La priorità della sicurezza e della tutela della salute pubblica può richiedere, in una fase, un pesante trade off con le finalità economiche che convolgono imprese e lavoratori. E’ naturale che si diano fasi in cui finalità sanitarie e finalità economiche sembrino entrare in rotta di collisione. Qui rientra in gioco il rapporto fra decisori pubblici e esperti o comunità scientifiche: nel senso elementare per cui la decisione politica implica l’assunzione di responsabilità e di lungimiranza alla luce degli esiti proposti dal discorso esperto. Il discorso esperto verte sui mezzi per la soluzione di un problema dato. La responsabilità politica riguarda i fini di una qualche comunità, considerati nella loro complessità e, se possibile, messi a fuoco con lungimiranza sul lungo termine.

Per quanto possa sembrare strano, questo tema ha a che vedere con i differenti tipi di regime politico. In particolare, con la distinzione fra democrazie costituzionali e autocrazie. Una distinzione che è riemersa con forza nelle circostanze della pandemia, a proposito delle contrazioni di diritti e libertà fondamentali di cittadinanza democratica derivanti da scelte pubbliche democratiche. Il che ha indotto frazioni di popolazione a chiedersi se, a fronte di sfide globali e inedite, le autocrazie non godano di una primazia quanto all’efficienza delle decisioni coattive e alcuni intellettuali a chiedersi se le misure restrittive democratiche non condannino i regimi democratici stessi a una fatale contraddizione. Alcuni hanno tirato in ballo in modo quanto meno bizzarro, quando non inappropriato, lo stato di eccezione di Karl Schmitt, dimenticando la differenza radicale fra la prospettiva del decisionismo giuridico e le scelte pubbliche democratiche in condizioni di emergenza. Resta il fatto, in ogni caso, che la pandemia ha messo in luce la realtà dei deficit democratici, come piace dire a Gianfranco Pasquino e, come mi piace dire a me, delle crisi nella o entro la democrazia politica contemporanea.

Quarta riflessione: a questo punto possiamo riformulare alcuni elementi ricorrenti nelle precedenti considerazioni sostenendo che i) Covid-19 è un gigantesco problema globale; ii) le risposte scientifiche della comunità dei ricercatori e delle ricercatrici hanno carattere quasi globale o globale; iii) non disponiamo di assetti di istituzioni e di misure e politiche globali efficaci e cogenti. Viene fatto di pensare all’Onu e alle sue agenzie e, naturalmente, all’Organizzazione mondiale della sanità; ma dalle nostre parti basta pensare all’Unione europea priva di competenza nei confronti dei sistemi sanitari degli stati membri. Naturalmente, occorre distinguere, quando critichiamo la lentezza dell’Unione e la sua debolezza nel fronteggiare la sfida globale di Covid-19, fra le sue istituzioni federali (Parlamento e Commissione) e le sue istituzioni intergovernative (Consiglio dei capi di stato e di governo).

In ogni caso, si ha come l’impressione che la tragedia planetaria della pandemia ci porrà tutti di fronte alla necessità di una svolta nella prospettiva delle macerie del dopo virus. Nella prospettiva da “terra desolata” à la T. S. Eliot e nell’attesa di un impressionante impegno nella ricostruzione e nella ridefinizione di modi fondamentali di convivere.

Quinta riflessione: qualcuno si chiede, nel silenzio enigmatico delle nostre città e delle città del mondo, dove siano finiti i venerdì di Greta, i Fridays for future. Vorrei sottolineare con forza che vi è una correlazione molto importante e significativa fra la pandemia e gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Fra l’esperienza del contagio da coronavirus e l’esperienza del saccheggio predatorio dell’ambiente e degli eco-sistemi. Così come vorrei avanzare l’ipotesi che l’agenda della sostenibilità, l’agenda 2030 dell’Onu, possa costituire una guida per l’impressionante impegno nella ricostruzione e nella ridefinizione dei nostri modi fondamentali di convivere.

Sulla correlazione fra degrado ambientale e circostanze di salto di specie e di infezione abbiamo numerose prove empiriche, proprio pensando ad alcune delle epidemie o pandemie recenti cui ho accennato nella prima riflessione. La deforestazione selvaggia e il cambiamento climatico, il continuo e vorace consumo di suolo nell’addensamento urbano delle megalopoli nel pianeta sono alcuni degli esempi più vistosi di correlazione. Ma possiamo pensare al fatto elementare che le conseguenze sociali della pandemia da Covid-19 si scaricano su società attraversate da intollerabili linee di disuguaglianza e di esclusione.

Considerate gli effetti del contenimento del contagio con misure che inchiodano nelle loro case le persone e vi rendete subito conto delle disuguaglianze dei luoghi dell’abitare. Considerate gli effetti della didattica a distanza per i bambini e i ragazzi in presenza di un marcato digital divide che si connette alla variabile disponibilità di metri quadri e alla numerosità delle famiglie. Pensate alle questioni di genere e, in particolare, alla persistenza del patriarcato nel pianeta nelle nuove condizioni della pandemia.

In questo senso elementare, vorrei suggerire che le politiche della ricostruzione dovranno essere politiche miranti al perseguimento di obiettivi sociali su una varietà di dimensioni della sostenibilità. Perché questioni di giustizia ambientale sono e devono essere questioni di giustizia sociale.

Sesta riflessione: consentitemi, in conclusione, di abbozzare una congettura filosofica che prende corpo a partire dal nostro ragionare insieme nelle circostanze inedite ed epocali della pandemia. Covid-19 ha messo a fuoco le dimensioni della nostra vulnerabilità e della nostra fragilità e ci ha ricordato quanto sia miope e filosoficamente ottuso sottovalutare l’importanza del nostro essere, in quanto esseri umani, corpi in carne e ossa, corpi e menti di animali umani esposti alla sorte e all’inaspettato. Noi non abbiamo corpi. Noi siamo corpi. Allo stesso modo, noi non abitiamo la terra, la Madre terra di cui ieri abbiamo celebrato la giornata mondiale, noi le apparteniamo.

Noi siamo certamente esseri frutto dell’evoluzione culturale tanto quanto lo siamo dell’evoluzione naturale. Noi non siamo i signori dell’universo, né i pinnacoli della creazione. Noi siamo nello stato contingente dell’essere creature nel senso che il mondo non è in alcun caso nostro. Infine, lo slogan prezioso “una sola umanità, un solo pianeta” va integrato con la glossa che ci ricorda che, come viventi, noi non siamo soli. La glossa elide la pretesa illusoria dell’eccezionalità antropocentrica.

Come siamo parte della natura e della cultura, come siamo un impasto di biologia e di logica, così noi apparteniamo al sistema e alla comunità del vivente. L’umanità è un sottoinsieme della comunità biotica. Il riconoscimento di ciò è il riconoscimento di un limite umano, solo umano. Nella giornata mondiale del libro, viene fatto di pensare al limite cui il grande Leopardi nella Ginestra alludeva, potendo evocare a questo punto la solidarietà umana, solo umana, e la social catena.

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