di Olivia Casagrande

Non solo storia – Calendario Civile \


Nel sud del Chile, nei pressi di Temuco, il viaggio di Che Guevara e Alberto Granado si interrompe e ricomincia. La motocicletta, la Poderosa, irrimediabilmente compromessa, viene abbandonata, e inizia lo spostamento più lento e contemplativo: il cammino, i tratti a piedi e su mezzi di fortuna, oppure su mezzi di trasporto condivisi da molti altri, quotidianamente, nel continente americano.

Poco più a nord, all’incirca 170 kilometri, e qualche decennio prima, cominciava un altro viaggio: un gruppo di sei uomini, quattro donne e quattro bambini, venivano prelevati e portati in Europa dal tedesco Richard Fritz, per essere esposti nei vari ‘Zoo Umani’ che all’epoca caratterizzavano l’intrattenimento popolare e soddisfacevano la curiosità scientifica della borghesia europea. Nel luglio del 1883 il gruppo di Mapuche – come, nello stesso periodo, gruppi di Fueginos e Selk’nam dal sud cileno, ma anche filippini, congolesi, samoani – giunse in Europa.

 

Secondo diverse fonti storiche analizzate da Christan Baez e Peter Mason (2006), passarono per il Jardin d’Acclimatation di Parigi; il parco Leopold, a Bruxelles; il giardino zoologico di Berlino, approdando in Germania, a Halle e Amburgo, tra il dicembre dello stesso anno e l’inizio del 1884. I loro corpi furono esposti come curiosità esotiche, chincaglierie di qualche gabinetto scientifico di fine ottocento. Alcuni torneranno alla loro terra, altri moriranno di malattia, violenza e nostalgia nella terra Europea.

 

Nessuno di questi due viaggi è viaggio antropologico. Eppure, il viaggio antropologico, che tanto metaforicamente quanto concretamente si costruisce a partire dalla ricerca sul campo, o ricerca etnografica, è inevitabilmente legato a doppio filo ad aspetti di entrambi: quello di Ernesto Guevara e Alberto Granado che partono a bordo della loro motocicletta, con l’entusiasmo della scoperta, il viaggio come occasione di incontro, la genuina curiosità e lo stupore per una realtà che non si conosce; ma anche e allo stesso tempo la creazione dell’altro, l’altro oggettivato perché ‘studiato’ e ‘viaggiato’, attraverso un regime di visibilità che Mary Louse Pratt (1992) ha definito seeing-man: colui che attraverso il proprio sguardo instaura un certo ordine visivo e discorsivo profondamente ancorati nel discorso scientifico di fine ottocento. Un guardare che espone e che divora, piuttosto che incontrare, l’altro, profondamente legato alle relazioni coloniali e la loro sinistra ‘durabilità’ fino ad oggi, ci ricorda Ann Stoler (2016). È questo uno sguardo che crea l’altro, e allo stesso tempo il sé Europeo, come sottolineato da scrittori postcoloniali come Edward Said e Homi Bhabha.

A partire da questa ambiguità fondamentale e fondante, le discipline antropologiche hanno e hanno avuto una relazione complessa con il viaggio. Se agli esordi lo spostamento non veniva quasi contemplato, e i primi antropologi, definiti appunto armchair anthropologists, facevano piuttosto affidamento sul lavoro di collaboratori in loco (missionari, esploratori) per la raccolta di dati e l’osservazione diretta, da Malinowski in avanti, come è noto, il rito di passaggio della ‘ricerca sul campo’ (quanto più possibile lontano da casa!) è diventato fondamentale nell’asserire un’autorità basata sull’essere stati là (Geertz 1988).

Allo stesso tempo, però, l’antropologo (e l’uso del maschile non è casuale) ha tenuto fino ad anni più recenti a differenziarsi proprio da quelle figure che sul viaggio e sul viaggiare costruiscono la propria narrazione, come esploratori, giornalisti, scrittori di viaggio. Nella maggior parte delle monografie classiche fino agli anni ’70 del 1900 (con eccezioni preziose, come il testo di Michel Leiris del 1934, L’Afrique fantôme), si è sottolineata piuttosto la permanenza in un altrove in cui la dimensione del movimento, dello spostamento, della partenza dell’arrivo veniva schiacciata in racconti incentrati sulla localizzazione di un’alterità statica nel tempo e nello spazio.

Eppure, l’antropologia, e la ricerca etnografica, prendono forma nello scambio e nel mescolarsi di pratiche di mobilità e località, spesso disordinatamente interconnesse, come ci fa notare James Clifford (1997). Pratiche che riguardano tanto l’antropologo quanto i contesti studiati, e coloro che dentro e fuori da ‘campi’ per nulla statici, appunto, si muovono.

Più recentemente, e soprattutto grazie all’antropologia femminista e decoloniale che ha costretto l’attenzione verso quegli aspetti della ricerca che riguardano la corporalità, la relazionalità, e la sfera affettiva, così verso politiche di rappresentazione e di produzione della conoscenza, tali aspetti ‘disordinati’, dialoganti all’interno di relazioni complesse e in movimento, hanno assunto una nuova centralità nella pratica e nella scrittura etnografica.

Se questo non permette di sfuggire del tutto alla ‘mitologia del campo’, apre a una possibilità diversa, già invocata orma più di vent’anni fa da molti tra gli antropologi contemporanei. Il campo viene ripensato come un insieme di pratiche e politiche spaziali, tattiche di ridefinizione continua tra esterno ed interno, prossimità e distanza in costruzioni sempre relazionali. Anche il viaggio di Ernesto Guevara e Alberto Granado, in fondo, parte da una condizione in cui l’altro è in principio oggetto, oggetto di una scoperta necessaria prima di tutto al sé.

Soltanto durante il viaggio stesso la relazione con l’alterità cambia profondamente, quando la scoperta diviene in sé stessa futile perché non è più tale ma si costituisce, invece, come relazione. Nella relazionalità la scoperta perde di senso, perché non riguarda più l’altro o l’altrove fuori di sé: diviene spazio di interazione, negoziazione, anche conflitto, è un darsi reciprocamente forma.

 

È questo ciò che nuovamente Mary Louise Pratt definisce ‘zona di contatto’, un concetto che invoca ‘la compresenza spaziale e temporale di soggetti precedentemente separati da disgiunture geografiche e storiche, e le cui traiettorie ora si intersecano’ (1992: 7). Tale termine parla della possibilità, a volte improvvisa e imprevista, di relazione come interazione e scambio, seppur all’interno di relazioni di potere fortemente asimmetriche. Se l’epoca contemporanea non è esente da versioni più aggiornate e ‘accettabili’ di Zoo Umani – basti pensare all’esposizione mediatica, spesso morbosa e depoliticizzata, a cui sono sottoposti gli aspetti più disumanizzanti dei viaggi dei migranti – forse possiamo, e dobbiamo, pensare allo sgretolarsi delle posizioni diseguali tra viaggiatore e viaggiato, per lasciare il posto a queste traiettorie che si intersecano di cui ci parla Marie Louise Pratt.

D’altronde, l’interconnessione come possibilità spaziale e temporale riporta a una delle possibili origini del soprannome di Ernesto Guevara, ‘che’. Anche se ci sono varie ipotesi di etimologia, qui mi soffermo su quella della provenienza dalla lingua Mapuche, nella quale il termine, usato come suffisso negli etnonimi delle identità territoriali locali sia nel sud del Cile sia in Argentina, significa ‘popolo’ e ‘persona’. Nel suo uso più tradizionale, che si riferisce al concetto di ‘persona vera’: un individuo che è tale in accordo a norme di comportamento sociale di un determinato contesto (in questo caso quello indigeno del sud del Sudamerica).

 

All’interno dell’epistemologia Mapuche, questo status di persona non è qualcosa con cui si nasce – per esempio, i bambini molto piccoli non sono considerati ‘che’, così come gli ubriachi, perché non hanno consapevolezza del sé né sono in grado di intrattenere relazioni sociali adeguate – ma è un processo, un divenire che continua per la vita intera. Ciò che rende tale processo possibile sono le relazioni. È l’interazione, non per forza positiva né esente da conflitto, tra il sé e l’altro da sé ciò che fa la persona, secondo modalità particolari e situate (si veda Course 2011).

 

È questo, allora, il viaggio capace di costruzione di senso? Un viaggio dalle basi fragili, la cui condizione di vulnerabilità ci chiama ad abbandonare l’illusione della Poderosa e ad affidarci ai piedi, ai mezzi di fortuna, e all’effimero incontro. Forse comincia in quel punto, nel sud del Cile umido di bosco e di pioggia, ciò che Ernesto ‘Che’ Guevara definirà una tenerezza necessaria, che sembra assomigliare al ritmo lento dei passi.


Bibliografia 

 

Báez, Christian, Mason, Peter. 2006. Zoológicos Humanos. Fotografías de Fueguinos y Mapuche en el
Jardín d’Acclimatation de París, Siglo XIX. Santiago: Pehuén.

Clifford, James. 1997. Routes. Travel and Translation in the late twentieth Century. Cambridge and London:
Harvard University Press.

Course, Magnus. 2011. Becoming Mapuche. Person and ritual in indigenous Chile. Urbana, Chicago and
Springfield: University of Illinois Press.

Geertz, Clifford. 1988. Works and Lives: The Anthropologist as Author. Redwood City: Stanford University
Press.

Pratt, Mary Louise. 1992. Imperial Eyes. Travel Writing and Transculturation. London and New York:
Routledge.

Stoler, Ann. 2016. Duress. Imperial Durabilities in our Times. Durham: Duke University Press.

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