di Anna Carreri
Università di Verona, Dipartimento di Scienze Umane

Trovo sconfortante riconoscere che ci sia bisogno nel 2021 di una Strategia nazionale per la parità di genere e al contempo, apparentemente contraddicendomi, trovo disarmante pensare che il documento rappresenti per il nostro Paese un inedito piano di intervento di medio-lungo termine in tema di gender equality. D’altronde, le diseguaglianze di genere sono ancora drammaticamente significative in gran parte del mondo, come ci ricorda il Global Gender Gap Report 2021 pubblicato dal World Economic Forum. Secondo i dati del rapporto, le donne dovranno attendere all’incirca un periodo di 136 anni per colmare il divario di genere, sempre che, strada facendo, la situazione non peggiori e la meta addirittura si allontani, come già accaduto nell’ultimo anno segnato dalla pandemia da Covid-19. La crisi scaturita dall’emergenza sanitaria ha infatti penalizzato soprattutto i settori a maggiore presenza femminile e messo a nudo, esacerbandole, le debolezze strutturali e culturali degli assetti di genere che già connotavano il nostro Paese. Ad aggravarsi maggiormente sono state le condizioni di vita-lavoro delle donne che già si trovavano in condizioni di precarietà lavorativa e delle donne con figli.

Il Global Gender Gap Report, giunto alla sua quindicesima edizione, è un documento importante perché consente di mettere a confronto l’evoluzione nel tempo degli squilibri di genere in 156 paesi utilizzando un indice di uguaglianza di genere in cui si considerano quattro aree: empowerment politico; partecipazione economica e opportunità; livello di istruzione; salute e sopravvivenza. A livello globale, i gap più marcati sono nell’ambito della politica e nella partecipazione al mercato del lavoro, dove a pesare – è bene sottolinearlo – non sono solo i saldi occupazionali ma anche il divario tra uomini e donne in termini di qualità del lavoro e opportunità di carriera.

In questo quadro generale, l’Italia, secondo il Global Gender Gap Report, pur segnando un miglioramento nella sfera politica (dal 44° al 41° posto), peggiora rispetto il divario di genere nella partecipazione economica (dall’87° al 114°), nella formazione (dal 27° al 57°) e nell’ambito della salute (dal 77° al 118°).

Secondo il Gender equality index stilato dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige), è nell’ambito del lavoro, inteso come partecipazione, segregazione e anche qualità dell’attività lavorativa, che l’Italia, ancor prima della pandemia, registra il punteggio più basso dell’UE posizionandosi così all’ultimo posto e su cui, quindi, è più urgente intervenire. A tal riguardo, ancora una volta, le disuguaglianze sono più marcate per le donne che hanno carichi di cura.

Anche a fronte di questi dati, la Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, presentata nelle scorse settimane dalla Ministra per le pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti, in coerenza con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e la riforma del Family Act, rappresenta un primo, eppure fondamentale, sforzo per accorciare quella lunga distanza che ci separa dalla parità di genere.

Il piano prevede misure di natura trasversale, come ad esempio la promozione del gender mainstreaming e del bilancio di genere, e misure specifiche per le cinque priorità strategiche che rappresentano le aree di maggiore problematicità. Queste, seguendo in gran parte l’impostazione dell’Eige, sono le seguenti: lavoro (partecipazione, segregazione e qualità), reddito (differenza retributiva cui si lega il fenomeno del gender pension gap), competenze (partecipazione all’istruzione e segregazione degli ambiti disciplinari), tempo (squilibri nel tempo non remunerato dedicato a carichi familiari e domestici che producono condizioni di stress) e potere (rappresentanza femminile nelle posizioni di leadership e negli organi direzionali). Sono cinque ambiti in cui gli squilibri fra uomini e donne si (ri)producono e in cui i tradizionali stereotipi di genere giocano un ruolo fondamentale in quanto alimentano una visione del ruolo della donna subordinata alla figura maschile, ancora difficile da estirpare. Tutto ciò evidenzia quanto sia cruciale investire nell’educazione alla parità di genere in ogni ordine e grado di istruzione.

Questo piano strategico nazionale è da accogliere positivamente perché individua aree di maggiore criticità del divario di genere e possibili azioni di intervento, indicando anche indicatori e target specifici. Occorre tuttavia sottolineare come il divario di genere rappresenti una problematica che richiede una lettura e una capacità di intervento in chiave intersezionale, tenendo cioè conto dell’interconnessione tra il genere femminile e altre dimensioni che possono generare vulnerabilità e povertà. Le lavoratrici domestiche e della cura rappresentano un caso paradigmatico di intersezione di molteplici forme di esclusione e asimmetria di potere sulla base di genere, classe, etnia, origine, cittadinanza, su cui è necessario fare luce. È proprio l’intreccio di tali diseguaglianze a mantenere in una posizione subordinata le lavoratrici domestiche e della cura su scala globale e locale.

Inoltre, nonostante gli ostacoli all’equilibrio di genere come sappiamo hanno un’origine lontana, è importante evidenziare i modi in cui essi vengono riprodotti, quali i processi di socializzazione e le pratiche organizzative del mondo del lavoro, e come si intreccino in modo anche inedito con le più recenti trasformazioni. A tal proposito, si pensi ad esempio alla pandemia ancora in corso o all’affermazione sempre più spinta dell’agenda neoliberale in diversi ambiti lavorativi. Un settore fra tutti è quello accademico, in cui politiche di matrice neoliberale legate al cosiddetto new public management si intrecciano con pratiche organizzative più conservatrici producendo in nuove forme asimmetrie di genere nella costruzione delle carriere, che sembrano essersi amplificate durante la pandemia, specialmente (ancora una volta) per le donne con carichi di cura. Si tratta di fenomeni che debbono essere monitorati e presi in attenta analisi.

Per promuovere concretamente l’empowerment femminile occorre anzitutto favorire la partecipazione femminile al mercato del lavoro, ad esempio attraverso il supporto a chi ha responsabilità di cura, aderendo tuttavia, se vogliamo realmente fare dei passi in avanti, a un’ottica di condivisione e di parità del ruolo materno e paterno. Inoltre, bisogna valorizzare la contrattazione collettiva per tutte le forme contrattuali, ponendo al centro la qualità del lavoro e della vita lavorativa nelle sue molteplici dimensioni, comprese quelle della conciliazione vita-lavoro, della protezione sociale e della partecipazione.

La promozione della parità di genere, infatti, non è da intendersi come uno specifico canale di intervento destinato alla popolazione femminile, perché ci riguarda tutti e tutte; essa deve piuttosto diventare una pratica di esercizio di una responsabilità collettiva, divenendo un grande motore di crescita e un caposaldo dell’agenda di sviluppo di tutti Paesi.

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