di Mattia Palma
Cultweek

La cultura si sta riprendendo timidamente i suoi spazi. Per il momento si tratta ancora di piccoli passi, ma ugualmente importanti per la nuova normalità di questo annus horribilis. Il concetto chiave che continuiamo a sentire e leggere ovunque intorno a noi, per la sicurezza nostra e dei nostri cari, è “distanziamento”, unito però quasi sempre all’aggettivo “sociale”.

Non c’è bisogno di scomodare Aristotele per rendersi conto, oggi più di ieri, di quanto la socialità rappresenti un aspetto non sacrificabile della nostra esistenza. Non a caso molti preferiscono parlare di distanziamento fisico, per riabituarsi anche solo dal punto di vista lessicale a una dimensione condivisa di idee e immaginari.

Dimensione condivisa che è fatta anche di corpi, di “esseri tattili” che entrano in relazione, conoscono il mondo con i cinque sensi e vibrano con il reale in un rapporto che, prima di essere etico, è estetico nel senso di quel sentire che fa della nostra pelle una soglia che è continuo tra scambio tra dentro e fuori. Un sentire che non è solo conoscenza razionale ma riscoperta di quelle potenzialità sopite, svilite da un rapporto progressivamente anestetizzato con l’ambiente che ci circonda. Confinati in casa, ancora in contatto con il mondo attraverso la mediazione degli schermi, abbiamo vissuto una fase di privazione sensoriale che ha alterato la spontaneità dei nostri incontri e ci rende impacciati a ogni stretta di mano, diffidenti a ogni abbraccio.

Una temporanea perdita di confidenza che forse ci dice del bisogno di riscoprirci comunità che sperimenta la prossimità e fa dell’essere gli uni con gli altri la scintilla di un sogno politico, in cui insieme si libera la carica utopica per un mondo migliore di com’è, oltre la sensazione schiacciante che non esistano vie di fuga, che il presente sia ineluttabile.

 

Perché sono proprio gli immaginari a essere entrati in crisi in queste settimane ed è con l’intenzione di risvegliarli che la Fondazione Feltrinelli ha immaginato il festival “Voices & Borders\Unlock Imagination”, ogni venerdì e sabato a partire dal 3 luglio fino al 1 agosto. L’arte non solo o non tanto come scopo, ma come mezzo per suggerire delle risposte, o meglio delle reazioni alla narrazione apocalittica di questo virus, di questo “iperoggetto”, come lo chiamerebbe Timothy Morton.

La musica, la danza, il teatro, la poesia non sono solo fonti di bellezza, in senso retorico o peggio ricattatorio: sono delle pratiche che devono essere incluse di nuovo nella cura di sé, per ricominciare ad accorgersi del proprio sentire, della propria appartenenza a una comunità. La dimensione rituale della performance ha un valore terapeutico speciale, perché colloca esecutori e pubblico in un processo creativo che crea un sodalizio imprevisto destinato a cambiarci.

Prendiamo gli appuntamenti musicali, in cui si vagherà attraverso diverse dimensioni timbriche, geografiche e temporali. Cambiano ogni volta gli strumenti, o meglio gli arnesi della musica, come li chiamava Leonardo Pinzauti. A cominciare dalla voce calda e rassicurante del violoncello, che attraversa le epoche mantenendo invariata la sua capacità di contemplare se stesso mediante il suono, da Bach a Kodály; poi il violino, anima stessa della musica, re degli strumenti con il suo canto a volte aspro, a volte morbido; naturalmente il pianoforte, nero e dalle forme astratte, capace di dare voce a ogni contraddizione: dalle grandiosità beethoveniane all’intimità di César Franck; e ancora le sonorità metalliche e malinconiche della chitarra, che sembra nascondere un’antichità segreta; infine c’è persino il gong, con la sua potenza ancestrale e lugubre che può diventare all’improvviso delicata come un sussurro.

Il viaggio musicale proposto dal festival va inteso come un percorso materico e concreto. La musica è per prima cosa suono in senso fisico: per questo è importante recuperarne l’emozione diretta, quando l’onda sonora che ci investe è prodotta da un contatto, un colpo, uno sfregamento avvenuto a qualche metro da noi. Se la riproduzione tecnica ha un difetto, nonostante tutte le sue comodità, è quello di farci dimenticare il mistero della musica che nasce, cresce e svanisce davanti a noi, quando siamo testimoni del suo accadere.

Il binomio isolamento/socialità è al centro dei laboratori teatrali del gruppo Phoebe Zeitgeist e dell’associazione Io Non Parlo Sono Parlato, ma anche delle due giornate di lavoro sulla cura della vicinanza con il coreografo Virgilio Sieni, le cui lezioni sul gesto permettono ogni volta di riconnettersi al proprio corpo e ritrovare un solfeggio interno che metta in discussione l’intera microfisica delle nostre intenzioni. Il festival si chiude con un rito-performance di Marco Massignan, terapeuta olistico che proverà a proporre nuove possibilità di relazioni personali e civiche.


 

 

 


L’ispirazione che guida questo festival è la ricerca di un’alternativa, mediante una ritualità collettiva che ha luogo di nuovo in presenza gli uni degli altri, per provare a ricucire gli strappi di questo strano periodo che ci è toccato vivere, tornando a sperimentare il conforto generato dalla vicinanza e da gesti e movimenti che disegnano uno spazio comune.

Si fatica a non pensare alla peste di Artaud, “terrorizzante apparizione del Male”, ma anche “rivelazione”, “strano sole” che illumina la vita con una intensità anomala, quasi come una luce sul palcoscenico su cui, finalmente, si rappresenta l’irrappresentabile. È questo il significato più profondo e inquietante del teatro, e forse della cultura in generale, con la sua crudeltà essenziale che mette in scena il nucleo fragile e irrequieto della vita. Certo non si intende una cultura di carta, la cultura nozionistica di chi sa, ma una cultura che si fa, che si pratica in una serie di istanti irripetibili.

Risvegliarsi dopo il confinamento significa cercare di ridare espressione alle forme della propria vita, farle crepitare per spezzare l’incantesimo paralizzante della paura così da ritrovare la voglia effervescente di esistere, di spingerci oltre l’orlo dell’esistenza individuale, di sentirci complici e capaci di progetti condivisi con nuove energie e un rinnovato senso di fiducia.

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