Università degli Studi di Pavia

La pandemia ha imposto una ridefinizione dei rapporti tra i consociati e la rete. Da internet si scarica il modulo per l’autocertificazione. L’esito del tampone è consultabile accedendo al fascicolo sanitario elettronico. La didattica a distanza ha preso piede in moltissime famiglie, anche sul versante delle relazioni con il personale scolastico, così come lo smart working ha delocalizzato il lavoro (pubblico e privato) dall’ufficio alla propria abitazione. Il complicato accesso agli sportelli bancari ha incentivato il ricorso all’home banking, così come i servizi postali hanno indotto gli utenti a usare il computer per molte operazioni. Il mercato reale è stato sopravanzato dalle transazioni virtuali. La stessa socialità è stata vissuta da remoto sfruttando al massimo le potenzialità dei canali telematici di interazione tra assenti.

Per quel che mi compete, ratione materiae, l’incremento esponenziale del ricorso alla tecnologia informatica ha mutato sensibilmente le modalità di esercizio concreto dei diritti fondamentali: dal diritto al lavoro al diritto allo studio, dal diritto alla salute alla libera iniziativa economica privata, dalla manifestazione del pensiero alla libertà di comunicazione, senza trascurare l’impatto non marginale sulle associazioni (che hanno spostato nello spazio virtuale la ricerca del dialogo tra i rispettivi membri) e sulle riunioni (che hanno colto nella rete l’occasione propizia per non incorrere nel divieto di assembramento). I diritti il cui esercizio determina il pieno sviluppo della personalità, in condizioni di eguaglianza (non solo formale, ma anche delle opportunità) tra consociati, sono stati attratti entro l’orbita del cyberspazio. Il godimento reale dei diritti fondamentali è stato ridimensionato a favore di un esercizio virtuale delle diverse facoltà ad essi associate. Con un rischio dalle implicazioni immani sul piano della tenuta del sistema costituzionale: che sia, cioè, virtuale non tanto la modalità di accesso ai beni indispensabili per vivere davvero quei diritti, ma che diventi virtuale, cioè solo potenziale (e non effettiva o attuale) la loro acquisizione. Ove tale rischio dovesse materializzarsi, assisteremmo ad un salto nel passato, dove il mercato fallì nella sua opera di efficiente distribuzione della ricchezza e i soggetti deboli restarono privi della concreta possibilità di godere appieno dei diritti fondamentali.

La rete e la strumentazione congeniale al suo efficace sfruttamento sono beni di mercato, in quanto suscettibili di valutazione economica e di conseguente acquisizione tramite l’interazione tra domanda e offerta. Imperanti le logiche liberiste della mano invisibile, l’accesso a tali beni verrebbe precluso a quanti non dispongono delle risorse finanziarie necessarie, ossia quelle imposte dal mercato: quei soggetti deboli la cui protezione è l’essenza del principio di eguaglianza sostanziale di cui al secondo comma dell’art. 3 della nostra Costituzione.

Affinché il paventato rischio non si concretizzi, si rivela necessario reinterpretare il rapporto tra i consociati e la rete, sfruttando al meglio le potenzialità insite in quel principio e, più in generale, nei valori costituzionali orientati verso l’equità e la giustizia sociale. Come? Sottraendo la rete dall’abbraccio mortale con il mercato e le sue regole.

La strada da percorrere, in quanto illuminata dal faro della Costituzione, è quella di riconoscere nel diritto all’accesso alla rete un diritto fondamentale di natura sociale, ossia di una posizione giuridica soggettiva che imponga alle istituzioni un ruolo attivo nel garantire l’universale disponibilità di internet.

Introdotti quali strumenti operativi del Welfare State, i diritti sociali mirano ad imporre alle istituzioni pubbliche l’erogazione di beni e servizi volti a rimediare ai fallimenti del mercato: a fronte di un diritto sociale lo Stato ha, infatti, il dovere di porre in essere prestazioni volte a consentire a tutti l’effettivo esercizio delle libertà fondamentali. Diversamente dai diritti della tradizione liberale, per i quali opera la garanzia dell’«o-tutto-o-niente», l’espansione e la qualità dei diritti sociali dipendono dalle risorse finanziarie disponibili, secondo il principio di gradualità. Un limite pesante, questo, reso ancor più gravoso dalla costituzionalizzazione del principio di equilibrio di bilancio nel 2012. Nondimeno, i diritti sociali restano un valore aggiunto che l’avvento dello Stato sociale ha avuto il merito di garantire ai consociati innalzando le opportunità di promozione e di inclusione sociale.

Proprio perché funzionale al concreto godimento dei diritti fondamentali, come ben testimoniato dagli esempi descritti in apertura, anche l’accesso alla rete si presta ad essere riconosciuto come un bene meritevole di tutela da parte di uno Stato che, in nome dell’eguaglianza sostanziale, si preoccupa direttamente delle reali chances di pieno sviluppo della personalità e di effettiva partecipazione alla vita comunitaria. L’accesso alla rete, se negato o reso estremamente difficile alle fasce più deboli della popolazione, rischia di divenire un ulteriore fattore di discriminazione, accentuando il gap tra consociati e tra ceti sociali: un ostacolo, quindi, che si aggiunge a quelli che, di fatto, impediscono il raggiungimento degli obiettivi di giustizia e di equità sociale evocati dall’art. 3, secondo comma, della Costituzione. Quanto più la rete si espande, attirando a sé le concrete modalità di esercizio dei diritti fondamentali, tanto più l’accesso ad essa diventa la condizione indefettibile per un genuino inveramento dei princìpi costituzionali a più alta vocazione sociale.

La rete è uno spazio in cui, pur muovendosi operatori attratti dalla prospettiva di ricavarne e di massimizzarne un profitto, resta pur sempre un bene seppur rivale (si pensi ai casi di congestione) ma non escludibile. Essa ha, dunque, tutte le caratteristiche per essere riconosciuta e trattata come un “bene comune”. Lo ha intuito soprattutto Stefano Rodotà, con le sue penetranti e visionarie riflessioni. Lo hanno sostenuto tutti coloro che, affrancandosi dalla angusta prospettiva dominicale che separa, da tempo, proprietà pubblica e proprietà privata, seguendo l’insegnamento di Elinor Ostrom (Nobel per l’economia nel 2009) hanno posto l’accento sull’effettivo godimento di tali beni (si pensi ad Ugo Mattei o ad Alberto Lucarelli). Ciò che rileva non è tanto il titolo formale che lega un bene ad un dato soggetto, quanto l’elemento fattuale del suo sfruttamento: e se l’uso di tale bene è riferibile a tutti, in quanto intimamente connesso ai diritti fondamentali, allora si tratta di un bene comune sottratto, in quanto tale, alle logiche proprie del mercato e della proprietà privata.

Se questo è lo sfondo concettuale e costituzionale entro cui collocare la proposta reinterpretazione della rete, come oggetto di un inedito diritto sociale, si tratta ora di immaginare le molteplici forme di impegno che tale qualificazione comporta in capo alle istituzioni.

Lo Stato e gli enti territoriali sono chiamati a consolidare e ulteriormente sviluppare i propri sforzi nella realizzazione e nella gestione delle infrastrutture di rete (banda larga, fibra ottica), garantendo così una adeguata copertura nei luoghi più remoti (quali le aree rurali o le zone di montagna) e nei contesti sociali più vivaci e plurali (le periferie).

Non potendo distribuire gratuitamente o a prezzi calmierati tanto le apparecchiature, quanto la installazione della linea, una coerente implementazione di tale diritto sociale dovrebbe portare a riconoscere incentivi fiscali per l’acquisto di tali beni e per l’abbonamento al servizio, sia pure limitatamente a chi versa in condizioni di indigenza o di bassa capacità contributiva.

Lo Stato e gli altri enti pubblici dovrebbero, poi, prendersi carico, anche rivolgendosi a soggetti non istituzionali, di attività di formazione e di aggiornamento, totalmente o almeno in parte gratuiti, così da rendere tutti in grado di saper navigare in rete senza perdersi. E l’informatica dovrebbe entrare a pieno titolo nei percorsi didattici sin dalla scuola media, se non persino prima.

 

La progressiva digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni e la diffusione dell’identità digitale dei singoli consociati dovrebbero, dal canto loro, aver luogo attraverso modalità semplificate che consentano una interazione ottimale senza necessità di una particolare e specifica preparazione tecnica.

Come ha dimostrato l’esperienza pandemica che stiamo vivendo, internet non è solo un mezzo per manifestare liberamente il proprio pensiero in una società democratica e pluralista come la nostra. La connessione ad internet condiziona fortemente il nostro essere membri consapevoli di una comunità complessa e, appunto, reticolare, interattiva. La rinuncia dello Stato ad intervenire per correggere le attuali imperfezioni del mercato nell’allocazione di tale risorsa suonerebbe come una insopportabile resa a possibili élites digitali che, sfruttando questa condizione di forza, potrebbero ulteriormente rafforzare il loro peso a scapito delle fasce più vulnerabili della popolazione. Se solo il Parlamento desse seguito alle proposte di costituzionalizzazione del diritto sociale all’accesso alla rete, il patrimonio giuridico di ogni consociato potrebbe ulteriormente arricchirsi all’interno di una società più giusta ed inclusiva.

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