44La Grande Guerra ebbe l’effetto di mettere in luce la misura in cui l’assetto economico-produttivo di un paese poteva contribuire a determinarne le possibilità di resistenza e di vittoria.
Per analizzare in che modalità cinque anni di storia abbiano cambiato per sempre il volto economico dell’Italia, dell’Europa e del mondo, questo percorso di ricerca prenderà in esame le grandi trasformazioni socio-economiche che caratterizzano questi anni.
La necessità di mobilitare per un lungo periodo eserciti composti da milioni di uomini, di fornire loro armi, vestiario, cibo indirizzando dall’alto, qualitativamente e quantitativamente, la produzione; l’esigenza di sostituire, nei campi come nelle fabbriche, la manodopera maschile richiamata al fronte; l’urgenza di regolare, ma anche di controllare, questo nuovo mercato del lavoro; e poi ancora, i cambiamenti che tutto questo produce nei rapporti tra Stato e cittadino, nelle abitudini e nei ritmi di vita della popolazione, negli assetti della società e perfino nel paesaggio urbano e rurale del paese.
Articolo di Approfondimento
Operai di guerra – da ViaRomagnosi n.6
Il rapporto fra il lavoro e la guerra e fra i lavoratori e la guerra si può definire ambiguo nel senso più letterale della parola. E sottolineo anche la distinzione fra “lavoro” e “lavoratori”. L’esigenza di dirigere, dislocare investimenti, adottare nuove forme di organizzazione del lavoro e di macchinari adeguati alla sfida produttiva della guerra impone per la prima volta la violazione del tabù del non intervento diretto dello Stato nell’economia. Fra queste competenze spicca con particolare rilievo quello della destinazione della forza lavoro.
La contrapposizione fra il fante contadino “uso a obbedir tacendo” e l’operaio ribelle e imboscato rappresenta il frutto più velenoso dei nazionalismi autoritari dell’immediato dopoguerra.
Tuttavia gli operai delle fabbriche mobilitate interpretano davvero pienamente l’ambiguità che si è detta.
Sottoposti a una disciplina militare in cui alle relazioni autoritarie della fabbrica dell’inizio del Novecento (ma in ultima analisi di ogni fabbrica) si sovrapponeva il controllo esigente degli ufficiali, gli operai delle fabbriche mobilitate perdevano – o vedevano limitato dal ricorso all’arbitrato preventivo – il diritto di sciopero ormai generalizzato in tutta l’Europa industrializzata e persino, con molte limitazioni, nell’impero russo.
Allo stesso tempo, il prolungarsi della guerra e il coinvolgimento (diverso da paese a paese) delle direzioni confederali imponeva a tutti i protagonisti dello sforzo bellico (patrons, ministri, alti ufficiali) di tenere conto anche del consenso dei produttori immediati, oltreché della popolazione in genere.
Sul grado di consenso della popolazione civile alla guerra – tenendo conto dei rapidi mutamenti intercorsi nell’inverno 1916 e nell’estate 1917 – abbiamo infinite fonti aperte a molte interpretazioni diverse, “dalla rassegnazione alla rivolta”, anche se è evidente il corto circuito fra il consenso o le resistenze dei soldati in trincea e delle famiglie, nonostante l’opera convergente di censura e propaganda.
Di questa difficile interpretazione sono segnale – ad esempio – le testimonianze dei soldati inglesi partiti volontari che si accorgono ben presto quanto la disciplina militare fosse ben più dura di quella di fabbrica che avevano sempre contestato mettendo così in crisi la fiammata patriottica.
Due gli effetti. Il coinvolgimento delle direzioni confederali e delle Trade Unions nella mediazione e nell’arbitrato, stimola la tentazione dello sciopero. Allo stesso tempo, nelle fabbriche mobilitate grazie al potere contrattuale consentito dall’urgenza della produzione, fanno la loro comparsa organismi che si chiamano in tanti modi, shop stewards, delegati, consigli operai, commissioni operaie. Istituti che sottolineano il processo di innovazione politica.
Istituti nati dall’esigenza di trovare comunque degli interlocutori nei conflitti, con un esercito poco disposto a dislocare truppe dai fonti di guerra a funzioni di ordine pubblico – convergeranno nelle nuove forme di rappresentanza diretta. In Italia si chiameranno Commissioni Interne. Istituti embrionali prima del ’14 diventano protagonisti di una intera stagione delle relazioni industriali.
Si apre così un breve periodo in cui i lavoratori si riprendono la propria autonomia conflittuale nelle pieghe dei diversi interessi e poteri che hanno di fronte, aprendo una stagione di democrazia cristallizzata infine nell’Ufficio Internazionale del Lavoro.
Maria Meriggi
Università di Bergamo