Con le attività promosse nell’ambito della Linea di Ricerca sull’Innovazione politica la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli vuole proporsi come un luogo in cui affrontare a diversi livelli e con interlocutori differenti, i temi caldi della politica e dei mutamenti cui sono soggette le forme della democrazia nella nostra epoca.
Democrazie minime?
Il Democracy Index è un indice creato dall’Economist Intelligence Unit al fine di misurare il numero e il grado di democrazia nei paesi del mondo. Questo indice prende in considerazione cinque indicatori di democrazia: il processo elettorale e il pluralismo, le libertà civili, il funzionamento del governo, la partecipazione politica e quella culturale. Secondo questa rilevazione circa metà dei paesi del mondo (e tutti i paesi occidentali) possono essere inseriti nella categoria delle “democrazie”. A differenza che nel periodo tra la fine della seconda guerra mondiale e il crollo del muro di Berlino sembra che la democrazia non abbia alternative, nel senso di regimi concorrenti con i quali organizzare le società.
Ma, mentre le democrazie si consolidano e sembrano non avere rivali, emergono e crescono sempre più atteggiamenti critici dei cittadini nei loro confronti. Un’interpretazione di questo fenomeno può legarsi alla discrasia tra due diverse dimensioni della democrazia, quella procedurale e quella sostanziale. Se dal punto di vista delle prassi e delle procedure, non c’è dubbio che viviamo in delle democrazie consolidate e mature, dal punto di vista “sostanziale”, sembra che le democrazie non riescano (più) a gestire e a sanare e le disuguaglianze tra i cittadini. Si tratta, insomma, di delle democrazie “minime”.
La crisi economica, la globalizzazione, e il sempre minor controllo che i governanti hanno su scelte che vengono fatte a livello sovranazionale hanno contribuito all’aumento di questa percezione. Negli ultimi decenni lo spazio politico-programmatico dei partiti più consolidati è stato costretto dai vincoli esterni a politiche che, che governasse l’uno o l’altro dei principali attori del sistema, non erano destinate a essere profondamente diverse; questo ha contribuito alla crisi delle tradizionali alternative partitiche, sia demotivando gli elettori a votare partiti tradizionali sia incoraggiandoli a votare partiti che si proponevano come “altri” rispetto all’impossibilità della politica di dare risposte efficaci alla crisi economica.
Guarda l’intervista a Maurizio Cotta
Ma la crescita della sfiducia dei cittadini nei confronti delle democrazie e delle loro istituzioni non è un fenomeno nuovo, anzi è un dato a cui gli studiosi fanno riferimento da molti anni, evidenziando che si tratta prevalentemente di un’insoddisfazione rispetto alle istituzioni e alle persone che ne fanno parte, e non di una sfiducia nei confronti della democrazia tout court e dei suoi valori.
Un recente studio di due ricercatori (Stefano Foa del World Values Survey e Yascha Mounk di Harvard) basato sulle risposte ai questionari del World Values Survey, sembra mettere in discussione questa teoria. Lo studio evidenzia la disillusione nei confronti della democrazia da parte di una fascia crescente di popolazione, soprattutto dei giovani. I giovani statunitensi (ma anche i giovani europei, seppure in misura minore), oltre a essere coloro che tendono a recarsi meno alle urne, tendono a credere sempre meno nei valori della democrazia. I dati di Foa e Mounk indicherebbero dunque la crescita di sfiducia nei confronti della democrazia in generale e dei suoi valori, non solo delle istituzioni. La crescita delle disuguaglianze (e della loro percezione), acuita dalla crisi economica globale, può essere uno dei fattori che contribuiscono a questo fenomeno.
La crisi economica e il populismo
Negli ultimi anni, la crisi economica ha contribuito ad ampliare la percezione che le democrazie non siano tali dal punto di vista sostanziale. Ne è una dimostrazione, tra le tante, la nascita di movimenti (come gli Indignados in Spagna e Occupy Wall Street negli Stati Uniti) che con le loro parole d’ordine si sono fatti portatori di una “democrazia reale ora” (¡Democracia real ya!), presentandosi come rappresentanti e difensori del 99% dei cittadini, a differenza delle élite politiche, accusate di proteggere e avvantaggiare soltanto l’1%.
La crisi economica ha causato una crescita dell’instabilità lavorativa, dell’incertezza economica ed esistenziale dei cittadini, e questo ha delle conseguenze anche sullo stato di salute delle democrazie. Studi hanno dimostrato che, durante una crisi economica, la fiducia nelle istituzioni e nella loro capacità di far fronte ai problemi delle società diminuisce: la responsabilità della propria condizione di svantaggio non viene percepita più come un fallimento personale ma come un problema sistemico, a cui la politica non sa dare risposte adeguate. Di conseguenza, in occasione di simili eventi i cittadini sono potenzialmente più propensi a voltare le spalle alle democrazie, minandone la stabilità.
A chi si rivolgono i cittadini in tempi di crisi? Storicamente sono stati i partiti di sinistra quelli che hanno portato avanti politiche e progetti rivolti alla tutela dei lavoratori (soprattutto di quelli più a rischio e svantaggiati). Oggi sembra che non sia più così. A partire da Tony Blair e dalla sua “terza via” le forze del centrosinistra europeo si sono spostate verso il centro. La globalizzazione e le trasformazioni del mondo del lavoro li hanno portati a lottare sempre meno per le tutele del loro classico bacino di voti.
Secondo la teoria dei “perdenti della modernizzazione” (elaborata da Hans-Georg Betz), la società post-industriale e il mercato del lavoro globalizzato producono “vincenti” e “perdenti”: coloro che riescono (oppure no) ad adattarsi e a trarre vantaggio da questi cambiamenti. La globalizzazione può essere un vincolo o un’opportunità, a seconda delle risorse (economiche e culturali) a disposizione di ciascun cittadino: può significare, ad esempio, nuove opportunità all’estero (nel caso dei “vincenti”, oppure la perdita del lavoro a seguito di processi di de-localizzazione (nel caso dei “perdenti”).
Partiti e movimenti populisti rappresenterebbero quindi un rifugio per questi “perdenti della globalizzazione”, di cui la crisi economica avrebbe aumentato il numero e la forza. Il populismo si basa sulla contrapposizione tra il popolo, considerato come virtuoso e puro, e l’élite (soprattutto quella politica), considerata al contrario come corrotta. La crisi economica rappresenta una congiuntura particolarmente favorevole per l’emergere di partiti e movimenti populisti, in quanto sarebbe la dimostrazione che l’élite non è in grado di salvaguardare gli interessi del popolo. Ma il populismo è un fenomeno “camaleontico”, che può prendere tratti diversi a seconda del contesto in cui si trova a operare.
Comizio di Nenni a Novara nei primi anni Cinquanta.
Partiti ed elettori in tempi di crisi
Negli ultimi anni in Europa (e non solo) abbiamo assistito all’emergere e all’affermarsi di partiti (nuovi o rinnovati) che possono essere accomunati dalla critica ai partiti cosiddetti mainstream e alle élite politiche esistenti. Nell’e-book Partiti ed elettori in tempi di crisi abbiamo cercato di analizzarne le basi sociali, al fine di comprendere chi rappresentino questi partiti. Ci siamo chiesti da chi fosse composto il loro elettorato, se dai cittadini che, soprattutto a seguito della crisi economica, si sentono “lasciati indietro” dalle élite politiche. In un contesto di crisi (crisi economica, crisi politica, crisi dei partiti tradizionali) come quella sopra descritta, da chi si fanno rappresentare i cittadini europei? I quattro casi che sono stati analizzati sono: il Movimento 5 Stelle, Podemos, l’UK Independence Party e il Front National.
Ciascuno di questi quattro casi racconta una storia diversa, ma è utile a comprendere un aspetto della crisi, e già la semplice considerazione del percorso politico-elettorale che ha portato questi partiti a ottenere risultati di successo nei rispettivi sistemi politici suggerisce che non si tratti di fenomeni del tutto simili per sviluppo, cause e caratteristiche. In due casi si tratta di partiti con più di quattro (FN) e due (UKIP) decenni di vita, ascrivibili al campo della destra; mentre diverso è il caso del M5S e di Podemos, due partiti autenticamente “nuovi”, sia per struttura organizzativa che per rivendicazioni e modalità d’azione, che si sono posti “oltre la destra e la sinistra”.
Da una parte possiamo trovare alcune analogie tra l’UKIP e il Front National come espressione dei “perdenti della modernizzazione”, essendo il loro elettorato composto dalle fasce più “precarie” (economicamente, ma anche dal punto di vista “esistenziale”) di popolazione – giovani e operai delle ex zone industriali nel caso del FN, anziani con titolo di studio poco elevato nel caso dell’UKIP. Se entrambi possono in qualche misura essere ascritti al campo della destra, va tuttavia osservato che gli elettori dello UKIP mostrano un fastidio per le eccessive diseguaglianze nella società particolarmente inusuale per il mondo anglosassone, mentre addirittura le tematiche del FN si spingono ancora più in là in una forte difesa del settore pubblico.
Il Movimento 5 stelle e Podemos sono stati accomunati perché sono partiti nuovi, nati in opposizione ai partiti tradizionali, con l’obiettivo di portare i cittadini comuni al potere, e che fanno un ampio uso delle nuove tecnologie. Se i due partiti possono essere accomunati per un sostegno da parte dei ceti medi a rischio di impoverimento e dei giovani, d’altra parte appare chiaro come il primo si posizioni in modo più marcato sulla sinistra del continuum destra-sinistra, mentre il M5s si pone in una posizione pienamente definibile come “post-ideologica”, confermata dalla trasversalità del suo elettorato. Si configura quindi in questi casi un diverso tipo di “precarietà”, legata prevalentemente alle condizioni di instabilità occupazionale che caratterizzano le giovani generazioni (i tassi di disoccupazione giovanile in Spagna e Italia sono tra i più alti d’Europa) e al timore di declassamento sociale dei ceti medi.
Guarda l’intervista a José Ramon Montero
Società aperta e società chiusa
Oggi collocare le preferenze degli elettori e le posizioni dei partiti sul continuum destra-sinistra sembra sempre più complesso. Alla dimensione ideologica destra-sinistra di stampo economico sembra aggiungersi un secondo asse che si struttura attorno alla dicotomia tra apertura e chiusura. Si tratta di una divisione tra chi desidera una “società aperta” (all’altro, all’immigrazione, alle minoranze) e chi una “società chiusa” e omogenea, un’opposizione tra posizioni libertarie e cosmopolite e orientamenti tradizionalisti in relazione a questioni quali immigrazione, crimine, diritti delle minoranze e ambiente.
La globalizzazione spinge sempre più verso società aperte in termini economici e culturali, ma i risvolti negativi in termini economici e occupazionali e la crescita delle disuguaglianze che ne consegue possono portare sempre più cittadini (soprattutto quelli colpiti negativamente da queste trasformazioni, o che temono di esserlo) ad atteggiamenti di chiusura. L’incapacità delle élite di dare risposte credibili alla crisi economica ha portato al successo di attori che, in taluni casi (emblematici, in questo senso, i casi del Front National e dell’UKIP) si pongono sul versante della chiusura. Ma la dimensione dell’apertura (all’altro, al diverso, alle minoranze) è un fondamento delle democrazie e dei valori che le sostengono. Se questa dimensione viene a mancare, insieme alla sensazione di vivere in delle democrazie “reali” e non solo “minime”, allora i timori di Foa e Mounk possono ritenersi fondati.
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