Scuola Superiore Meridionale di Napoli

Ma siamo sicuri di sapere quanta democrazia vogliamo? Cosa significa, nella retorica populista, invocare l’iper-democrazia? Forse dovremmo chiederci: quanta democrazia serve affinché le cose funzionino?

La questione è cruciale quando si prospettano dinanzi a noi sfide dalla natura epocale: per esempio, la transizione energetica dentro il quadro condiviso della lotta al cambiamento climatico. Qualsiasi azione venga intrapresa, oppure omessa, a tutti i livelli di governance, preannuncia impatti innegabili su tutti noi. Le strategie di intervento, che dovranno essere indiscutibilmente radicali perché possano produrre un risultato rilevante, rischiano di portare con sé una ferita relativa alla loro natura democratica.

Se la transizione è affar nostro, è pensabile lasciarne l’implementazione alle leggi del mercato o a considerazioni di natura tecnocratica? Possiamo acconsentire a prendere parte a una transizione che non abbiamo potuto co-progettare? Chi rappresenta in questa arena il nostro interesse interumano e intergenerazionale condiviso?

Nel modello politico novecentesco, e in particolare in quello della democrazia dei partiti, sono questi ultimi ad assumersi l’incarico di aggregare le istanze dei soggetti collettivi e di tradurre queste domande in outputs decisionali, cioè in politiche.

Negli ultimi decenni, però, partiti, sindacati e circoli hanno visto ridursi la capillarità della loro presenza sul territorio, aumentando la sensazione di una scarsa rappresentatività e causando una spirale di individualizzazione e ritrazione dalla dimensione collettiva.

In questo scenario si va alimentando il discorso populista, che nasce in seno alla democrazia stessa come suo necessario gemello (Canovan, 2002):

lì dove l’elezione è vista come apoteosi del momento democratico, il populismo mostra ostilità verso i tradizionali meccanismi della rappresentanza, diminutio di una “vera partecipazione” (Mèny, Surel, 2002).

In particolare, il cosiddetto “populismo sociale” o di sinistra promuove la democrazia diretta come strumento di coinvolgimento disintermediato del popolo, tutto da definire (Sorice, 2018), trattando l’elezione come un singhiozzo intermittente di una politica che assume i tratti di un miraggio dentro lande desolate.

Non si può negare la fatica dei corpi intermedi nella ricomposizione delle domande politiche dentro progetti di convivenza: le azioni intraprese si frammentano su issues specifiche ed ego-riferite; ai politici di professione si sostituiscono meteore precipitate per opportunità nell’agone istituzionale; si spezza la saldatura con gli elettori di riferimento, dispersi in pulviscoli di micro-questioni dentro un’agenda neutrale. Allora il problema della rappresentanza oggi è, anche, il fatto di non essere più una rappresentanza di parte: l’esito sfortunato di questo inceppato meccanismo è la svalutazione dell’appuntamento elettorale a rituale superfluo. Ma l’astensionismo è un disinteresse verso la politica tutta o verso una certa classe politica, poco fedele alle promesse fatte in campagna elettorale, sempre meno decisionale e decisiva? Del resto, se le geografie delle alleanze si modificano susseguendo brevi cicli di luna di miele, come ci si può aspettare che gli eletti siano davvero “accountable”, cioè responsabili per gli impegni presi dinanzi agli elettori?

Accade perciò che le parti in questione decidano di aggregarsi da soli. Allora, se smettiamo di assumere che l’esercizio democratico vada identificato in modo esclusivo e assoluto con la rappresentanza (Fasano, Panarari, Sorice 2016), possiamo riconoscere a questi soggetti l’incarnazione di una pratica democratica a tutti gli effetti. In questa logica, l’ontologia democratica starebbe invece nella partecipazione o, spingendoci un po’ oltre, nella presenza fuori dalle assemblee istituzionali.

Ben prima dei problemi relativi all’identificazione di una definizione scientifica unanime di “partecipazione”, esistono infatti criticità rilevanti rispetto ai tentativi top-down di disciplinare l’attivismo spontaneo. Esistono forme di partecipazione per invito e coinvolgimento, che sono quindi strutturate in concertazione con i soggetti istituzionali, ma accanto a queste vi sono altri esperimenti di partecipazione per conflitto (Blas, Ibarra 2006) che rifiutano qualsiasi ingerenza da parte del soggetto pubblico che è pertanto tentato a trattare questi episodi con diffidenza.

Al contrario, la partecipazione diffusa va sempre intesa come empowerment dei cittadini (della Porta 2011) ma anche come educazione allo spirito democratico.

Non è sintomo di depoliticizzazione, tutt’altro: è invece riappropriazione di un inedito protagonismo, non canonicamente inteso ma pur sempre politico, perché comunitario e conflittuale.

Del resto, democrazia partecipativa è accogliere le voci nella loro pluralità, senza la presunzione di produrre immediati compromessi (Crosta, 1998) e, perciò, si pone in una forma procedurale deliberativa (Steiner, Bachtiger, 2004): si produce, in questo modo, una cultura del dialogo che, auspicabilmente, giunga a normare anche i comportamenti delle istituzioni (Risse, 2000). Se desideriamo una politica deliberativa, presumendo che questa possa tradursi anche in decisioni e produzioni di politiche più efficienti ed efficaci, ebbene non possiamo prescindere dalla partecipazione dentro una sfera pubblica ampia, la cui vitalità, da Habermas a Dryzek, determina la qualità della democrazia tutta. Solo con la partecipazione si potrà orientare la politica deliberativa verso la difesa di un bene comune che sia anche, non solo, interesse del singolo: e non è forse la salute del pianeta terra e delle future generazioni il bene comune per antonomasia?

Per questo, nonostante non si tratti di meccanismi perfetti – dovuti per esempio al metodo del sorteggio per la scelta dei cittadini partecipanti, all’esercizio delle exit strategies e alla rappresentanza degli assenti involontari, o ancora alle complicate procedure per assicurare la trasparenza del dibattito – le Assemblee Cittadine per il Clima sono un esempio da seguire e perfezionare. Rappresentano lo sforzo delle città d’Europa, e del mondo, di porre gli amministratori a servizio degli abitanti, che sono coloro su cui ricadranno le scelte legate alla lotta al cambiamento climatico, o viceversa le conseguenze dell’immobilismo. Non è giusta, né potrà funzionare, una transizione energetica che non sia inclusiva e partecipata.


Le Spring School on Climate Citizens’ Assemblies si terranno in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli il 27 e 28 aprile 2023.


Riferimenti bibliografici

  • A. Blas, P. Ibarra (2006), La participación: estado de la cuestión, in «Cuadernos de Trabajo de Hegoa», Número 39.
  • M. Canovan (2002), Taking Politics to the People:Populism as the Ideology of Democracy, in Y. Mény, Y. Surel (a cura di), Democracies and the Populist Challenge, Palgrave Macmillan, London.
  • P. L. Crosta (1998), Politiche: quale conoscenza per l’azione territoriale, Franco Angeli, Milano.
  • D. Della Porta (2011), Democrazie, il Mulino, Bologna.
  • L. Fasano, M. Panarari, M. Sorice (2016), Mass media e sfera pubblica: verso la fine della rappresentanza?, in «Utopie», 47, 1-84.
  • T. Risse (2000), “Let’s Argue!”: Communicative Action in World Politics, in «International Organization», 54(1), 1-39.
  • J. Steiner, A. Bachtiger (2005), Deliberative Politics in Action: Analyzing Parliamentary Discourse, Cambridge University Press, Cambridge.
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