L’idea di costruire una forma di rapporto sistematico tra policy maker e ricercatori non è nuova. Nel passato lontano e recente del contesto italiano ed europeo sono state praticate infatti diverse forme di relazione tra questi attori [Guidali 2016].
Una delle più importanti forme praticate in passato di ingaggio degli studiosi nelle politiche è quella basata sui cosiddetti “intellettuali organici”, ossia figure di studiosi e più in generale di esponenti del mondo intellettuale dichiaratamente sostenitori o vicini ad un partito politico e dunque anche a chi elaborava le politiche dentro a quel partito [Asor Rosa 1982]. Tale modello, come noto, si è affermato soprattutto nel corso del ‘900 in Europa, all’interno dei grandi partiti provenienti dal movimento operaio, socialisti e comunisti, ma è stato presente in forme varie anche nei grandi partiti centristi o conservatori europei, come la DC in Italia o la CDU in Germania o nei partiti liberali e democratico-repubblicano (come in Italia sono stati gli azionisti o i radicali). Si tratta di un modello nel quale la funzione di supporto scientifico alle politiche era soprattutto di tipo ideologico e nel quale gli intellettuali producevano prevalentemente riflessioni di fondo a supporto della visione generale e del posizionamento del partito rispetto ad alcune grandi opzioni politiche. In questo modello, le politiche ricevevano un vaglio scientifico per lo più in forma indiretta e preventiva, cioè attraverso il filtro politico dei partiti a cui gli intellettuali organici aderiscono e a cui contribuiscono. Rimaneva quindi trascurata la dimensione di analisi delle politiche prodotte dai governi. Tale analisi, d’altronde, non ha ricevuto una rilevante attenzione specifica da parte degli studiosi come oggetto di ricerca, se non negli ultimi decenni del ‘900. Ciò avverrà infatti solo con lo sviluppo della politologia nordamericana degli anni ’60 e solo a partire dagli anni ’70 e ’80 questa attenzione inizierà ad entrare nel dibattito scientifico europeo [Regonini 2001].
Un secondo tipo di relazione che possiamo individuare tra ricercatori e decisori è quella di tipo consulenziale. Essa consiste in una relazione professionale e circoscritta tra amministratori e professionisti del sapere esperto attorno ad un particolare tema di politiche. Si tratta di un rapporto nel quale l’amministratore pubblico identifica un interrogativo specifico, decide in maniera discrezionale a quali esperti e ricercatori rivolgersi per cercarvi una risposta, affida loro un mandato retribuito e infine decide se, quanto e come rendere pubblici i risultati dell’indagine. Un tale tipo di relazione ha un carattere pragmatico, dal momento che nasce esattamente in relazione a degli interrogativi di policy. D’altronde, tale modello implica una visibilità pubblica molto variabile, in quanto dipendente dalla discrezionalità del decisore pubblico, con il rischio di produrre una scarsa discussione pubblica degli esiti della ricerca stessa. […].
Negli ultimi anni, alcuni studiosi hanno messo in luce l’emergere di un’ulteriore modalità di utilizzo da parte dei policy maker della conoscenza scientifica. Essa fa riferimento al cospicuo utilizzo, da parte dei policy maker, di dati statistico-quantitativi, presentati come giustificazione esclusiva, o quasi, delle proprie scelte di policy [Desrosiéres 1998, 2011]. Si tratta di una forma di utilizzo della conoscenza volto al presentare le proprie scelte politiche come obbligate dai dati, declinando in modo spesso assai superficiale il concetto di evidence based policies [Pawson 2003, Salais 2009, Wolin 2008]. Se infatti le scelte di politiche vengono presentato come auto-evidenti, esse diventano anche non discutibili, se non dalla sola comunità scientifica. Questa tendenza opera cioè una sorta di collasso della dimensione normativa sulla dimensione descrittiva, in virtù della quale una certa osservazione della realtà, supposta come oggettiva e indiscutibile, diventa di per sé sufficiente a orientare le scelte di governo della cosa pubblica, senza passare dal vaglio di considerazioni di opportunità morale o politica [Bosco 2012, De Leonardis, Giorgi 2013]. […] Tale modalità sembra essere adottata in maniera crescente dai decisori pubblici, a vari livelli, non solo a livello nazionale e internazionale, ma anche in alcune esperienze amministrative locali [Borghi et al. 2013]. Anche in questo caso, dunque, l’utilizzo del sapere prodotto dai ricercatori appare di tipo prevalentemente strumentale e tende a ridurre lo spazio del dibattito democratico.
Il lavoro del Laboratorio Metropolitano [presentato in “Agenda Milano. Ricerche e pratiche per una città inclusiva”, a cura di Emanuele Polizzi e David Bidussa, ndr] mira a configurare un tipo di relazione assai differente da tutti e tre questi modelli di relazione tra Amministrazioni pubbliche e ricercatori. Da una parte infatti, esso intende porre la relazione con i ricercatori in termini non strumentali, cioè non chiede loro di diventare consulenti per la giustificazione delle proprie politiche e non offre infatti alcuna retribuzione. Dall’altra parte, qui i ricercatori non sono chiamati in causa nella loro veste di sostenitori politici dell’Amministrazione comunale, e tantomeno nella veste di ideologi di riferimento di un partito o di una corrente politica. Il loro ingaggio avviene semmai su lavori da loro già prodotti autonomamente o in corso di produzione. L’obiettivo è infatti quella di mettere in valore quanto la ricerca scientifica sui fenomeni urbani e sulle politiche che li governano già produce e porlo all’attenzione di un’Amministrazione pubblica, attraverso un processo pubblico di selezione nel quale il criterio di inclusione è lo spessore scientifico e la pertinenza del contributo ai temi che l’Amministrazione ha proposto.
20/02/17
* Il testo è tratto da “Agenda Milano. Ricerche e pratiche per una città inclusiva” a cura di David Bidussa ed Emanuele Polizzi, Scenari, febbraio 2017.