Forse sarebbe dunque meglio riporre le idee sinora dominanti intorno allo stato-nazione nell’ambito delle fantasie idealtipiche, difficili da incontrarsi o da attuare nella realtà, e denunciare come sbagliata (o quantomeno irrealizzabile) la concezione-base che a esse si connette: che cioè un popolo (una etnia, una tribù, ecc.) per vivere bene e affermare la propria soggettività storica e la propria libertà e democrazia abbia bisogno di vivere sul territorio in cui si trova in una condizione di omogeneità etnica, possibilmente dotata di sovranità, o comunque almeno di maggioranza. Tale concezione porta all’esclusivismo (o integralismo) etnico, che nelle sue forme estreme – e purtroppo non rare nella storia – impone l’inclusione o l’esclusione forzata dei «diversi» (persone, gruppi, lingue, culture, religioni…). Ciò può avvenire da un lato attraverso l’assimilazione imposta e non di rado violenta, dall’altro attraverso l’emarginazione, la discriminazione, l’espulsione dal territorio o addirittura lo sterminio. In ogni caso l’integralismo etnico produce attriti e guerre – ormai questo è noto dall’esperienza storica, e bisognerebbe saperne tener conto.
Chi desidera o costruisce uno «stato dei tedeschi» (o degli italiani, dei rumeni, dei croati, dei lettoni, dei francesi…) non dovrà stupirsi se tutti quelli che non si considerano tedeschi, italiani, rumeni, croati, lettoni o francesi – a seconda dei casi – comincino a sentirsi a disagio e a ribellarsi. E quanta più statualità si collega all’affermazione degli obiettivi etnici o nazionali, tanto più pericolose ne saranno le conseguenze. Anche una politica della convivenza pluri-etnica non potrebbe puntare in prima linea sugli strumenti della statualità, ma esige comunque anch’essa una certa misura di garanzia istituzionale del pluralismo linguistico, etnico, culturale e religioso, e della sostanziale parità di diritti e opportunità, nonché del reale riconoscimento e della promozione della diversità e della sua dignità.
Chi è consapevole di quanto infausta e pericolosa sia ogni tentazione di esclusivismo etnico, dovrà in vece lavorare intorno a politiche positive di convivenza: sarà questa una delle principali sfide dell’oggi e del prossimo futuro, e sarà questo uno dei parametri decisivi secondo i quali si devono misurare gli stati, le strutture politiche e anche gli stessi obiettivi e le iniziative dei movimenti etno-nazionali minoritari. Esclusivismo etnico o politica della convivenza: è questa la fondamentale alternativa da porre, e sta qui una sorta di cartina di tornasole per verificare un importante aspetto della qualità pacifica o guerra fondaia di stati, costituzioni, ordinamenti – e anche dei movimenti di risveglio etnico.
Bisognerà dunque valorizzare la dimensione territoriale assai più che la dimensione etnica o nazionale: il comune vincolo che unisce le persone conviventi su uno stesso territorio, costituisce un legame con esso e tra le generazioni che vi si susseguono. Vi possono confluire positivamente importanti aspetti ecologici, sociali, economici e anche culturali, e decisamente vi corrisponde meglio una concezione federalista piuttosto che lo stato-nazione o le sue caricature in sedicesimo. Anche perché gran parte degli odierni stati c.d. nazionali sono al tempo stesso troppo grandi e troppo piccoli: troppo grandi per assicurare reale democrazia e partecipazione, e troppo piccoli per affrontare in modo efficace i maggiori problemi di carattere sovra-nazionale (p. es. la protezione dell’ambiente o la politica di sicurezza).