Ricercatore

Che conseguenze avrà l’emergenza virus nei ghetti dei braccianti? Nelle ultime settimane questa domanda mi è spuntata in testa più volte ma ho continuato a rimandare il momento di alzare la cornetta, forse per la consapevolezza di poter essere di poco o nessun aiuto. È stato più veloce Yankouba: “Boy! Come stai?”, mi ha incalzato appena ho alzato il telefono, “Sono preoccupato per te e la tua famiglia, la televisione dice che ci sono grossi problemi a Milano”.

Yankouba è un amico. Ci siamo conosciuti durante gli anni del mio dottorato durante i quali ho fatto ricerca nelle baraccopoli del foggiano. Yankouba, arrivato in Italia dal Gambia come richiedente asilo, ha vissuto lì per diversi anni. Nell’ultimo anno ci eravamo visti spesso: aveva trovato lavoro come bracciante nella campagna a sud di Milano. Ma erano più di due mesi che non ci sentivamo. “Con il lavoro fermo per la stagione invernale non posso restare qui al Nord”, mi aveva detto a dicembre, “Torno a Foggia, spero di tornare qui quando ci sarà più lavoro”. La spesa per abitare in una casa è alta. Lo è per Yankouba, anche se l’appartamento dove viveva, in affitto insieme ad altri fratelli e amici, è in un gruppo di abitazioni isolato in mezzo ai campi ed è modesto: due stanze riscaldate da una vecchia stufa, muri che avrebbero dovuto ricevere un’imbiancatura diversi anni fa.


Una baracca in cui abitare

A Foggia, o meglio, a Mexico, la baraccopoli cresciuta sull’ex pista di atterraggio militare vicino al borgo rurale di Borgo Mezzanone, Yankouba ha costruito una casa: una baracca grande, di assi di legno e pannelli recuperati da vecchi mobili, con una stanza da letto, una cucina, una sala da pranzo e una veranda. Mangiando una sola volta al giorno e dividendo le spese con cinque o sei amici può vivere anche da disoccupato, spendendo pochi centesimi al giorno. Durante la stagione del pomodoro Yankouba trasforma la baracca in un “ristorante”, la sua maggior fonte di entrate per tutto l’anno.

Secondo un rapporto pubblicato da Medici Senza Frontiere nel 2018, sono almeno 50 gli insediamenti informali abitati da cittadini stranieri in Italia, per un totale di almeno 10.000 abitanti. Le baraccopoli costruite dai braccianti africani nelle zone di raccolta sono fra gli insediamenti più grandi, chi ci vive li chiama “ghetti”. Mexico, dove ora è Yankouba, è uno di questi: un insediamento che ospita oltre 2.000 lavoratori stagionali durante l’estate ma anche svariate centinaia di persone che vivono lì tutto l’anno, in baracche sprovviste di acqua corrente e servizi igienici, con allacci alla corrente elettrica precari, disconnesse da ogni tipo di servizio esistente nei centri urbani, senza un sistema di smaltimento dei rifiuti, dipendenti dall’economia informale per avere accesso al cibo e a ogni altro bene di prima necessità, perennemente a esposte al rischio di incendio o sgombero.

Baraccopoli, Foggia


Dimenticanze inaccettabili

I ghetti dei braccianti esistono dagli anni Ottanta, ormai da quasi quarant’anni, ma tendiamo a dimenticarli, come se fossero invisibili. Ce li siamo dimenticati anche quando è scoppiata l’emergenza Covid-19. Quando mi ha telefonato Yankouba era il 12 Marzo, mi ha raccontato che l’informazione sul nuovo virus (Sars-Cov-2) è arrivata a Mexico con la televisione e il passaparola. “Parlano tutti solo di quello”, mi ha detto. Ma aveva solo informazioni frammentate e incomplete.

Gli ho chiesto se avesse saputo dell’obbligo di “stare a casa” applicato in tutta Italia due giorni prima con il decreto del Presidente del Consiglio. Mi ha risposto che la notizia era arrivata a Mexico perché due ragazzi erano andati in città, a Foggia, ed erano stati fermati dalla polizia e rimandati indietro. Un bel rischio, ho pensato. Violare il divieto di spostamento è un reato penale, con possibili conseguenze per lo status legale dei cittadini stranieri che vengono fermati, è un rischio di cui dovrebbe essere data la possibilità a tutti di essere consapevoli.


Tutti uguali di fronte al virus, o no

Più voci hanno fatto notare come le restrizioni introdotte dal decreto del 10 marzo mettono in luce profonde diseguaglianze.

C’è chi ha evidenziato come l’esperienza del confinamento nelle mura domestiche possa risultare ben diversa a seconda delle condizioni di partenza individuali, ad esempio, per chi abita in abitazioni piccole e chiuse, magari condivise con molte persone, e per chi ha a disposizione ampi spazi, terrazzi, e giardini all’aperto. C’è chi, con l’hashtag #vorreirestareacasa, ha sottolineato il paradosso creato dall’obbligo di stare in casa per di chi una casa non ce l’ha.

Infine, le rivolte scoppiate nelle case di reclusione di diverse città italiane hanno messo in luce le crisi vecchie e nuove del sistema penitenziario di cui la rabbia per le misure introdotte per contenere la diffusione del nuovo coronavirus è solo un campanello d’allarme. Questa rabbia è quella di chi, vivendo già ristretto nella propria libertà 365 giorni all’anno, si trova nell’impossibilità di mantenere le distanze dai propri compagni in una cella sovraffollata.

La crisi creata dal nuovo coronavirus dovrebbe forzarci a ricordare chi sono gli esclusi nel nostro paese.


Quarantene inaspettate

Finora (per fortuna) nei ghetti non si sono rilevati casi di infezione; me lo racconta Alessandro Verona che, con l’ONG Intersos, è in prima linea nel cercare di prevenire una crisi epidemica nei ghetti del foggiano. Questo dato, analogo a quello relativo alla popolazione dei senzatetto in altre città italiane, potrebbe essere un risultato fortuito della segregazione abitativa.

Il contatto fisico è il fattore determinante nella trasmissione del virus. Per questo motivo è probabile che la diffusione del contagio sia influenzata anche da variabili sociali come l’età e lo status economico. La frequenza con cui persone con caratteristiche diverse interagiscono all’interno di una società ha un impatto sulla probabilità che il virus si diffonda in un determinato gruppo. Ad esempio, uno studio realizzato da ricercatori dell’Università di Oxford (riassunto anche in questo articolo di Wired) ipotizza che l’epidemia abbia causato un numero così terribilmente alto di decessi in Italia anche per la maggior frequenza con cui giovani e anziani interagiscono rispetto ad altri paesi.

Un meccanismo analogo potrebbe aver limitato i contagi nelle baraccopoli. Come illustrato da queste visualizzazioni grafiche del Washington Post, l’eliminazione dei contatti fra una comunità infettata e una comunità sana frena il contagio. Invece che arrivare su un barcone come si aspettava qualcuno il virus è arrivato in Italia viaggiando con regolare biglietto, e ha colpito per prime persone appartenenti a gruppi sociali relativamente agiati. La grande frattura sociale che divide la maggior parte della popolazione italiana dagli abitanti delle baraccopoli potrebbe aver protetto gli ultimi, quasi come se la popolazione dei ghetti fosse in quarantena permanente.

A parte gli ipotetici e momentanei benefici inaspettati però, è impossibile non notare i lati negativi della segregazione. In questi giorni sono evidenti per tutti. Il giornale Science ha riassunto una serie di studi che mostrano come l’isolamento sociale cronico, la mancanza di interazioni con altri esseri umani, può avere effetti deleteri sulla salute fisica e mentale. Stiamo tutti avendo un timido assaggio di cosa possa voler dire l’isolamento quotidiano di chi abita i ghetti e di altri gruppi marginalizzati.


Vulnerabilità estrema

Il rischio connesso a un’estensione del contagio alle baraccopoli è più alto che mai. Come mi fa notare Alessandro Verona, l’R0 del Sars-Cov-2, il parametro epidemiologico che misura il numero medio di nuove infezioni generate da un singolo caso positivo, è stato calcolato nei contesti dove il virus si è diffuso finora, ovvero, contesti abitativi urbani come quelli a cui siamo abituati. Non abbiamo idea della velocità di diffusione in una baraccopoli ma è lecito aspettarsi che sia molto maggiore.

In un posto come Mexico, gli abitanti vivono nell’impossibilità di applicare le precauzioni sanitarie necessarie a prevenire la diffusione. Il difficile accesso all’acqua limita le possibilità di lavarsi le mani frequentemente e igienizzare le superfici. Il sovraffollamento abitativo, il fatto che si viva in molte persone nella stessa baracca di pochi metri, impedisce di mantenere le distanze di sicurezza. In questo contesto l’ipotesi di isolamento di chi mostra sintomi è praticamente inconcepibile. Il rischio è reso ancora più elevato dall’alta incidenza di patologie respiratorie rilevata dal team medico dell’ONG Medu in contesti analoghi.

Emergono inevitabilmente le contraddizioni insite nell’applicazione delle misure di prevenzione epidemica in presenza di una larga popolazione invisibile nella sua vulnerabilità: ha senso raccomandare di restare a casa a chi vive in un contesto di emergenza sanitaria permanente?


Appunti dalla quarantena

Anche questa crisi finirà: cosa fare quando potremo fare di più e parlare di meno (come cantavano i Les Enfants riferendosi a un’altra crisi)?

Gianluca Briguglia storico dell’Università Ca’ Foscari sostiene che “abbiamo di fronte a noi la grande libertà e necessità del cambiamento”. In questa emergenza stiamo imparando molte cose, fa notare Briguglia, a partire dal fatto che, “uno Stato che non investe in un sistema pubblico efficace ed efficiente, che sia la sanità, la ricerca, l’istruzione è uno Stato che prima o poi si troverà in difficoltà”.

Un’altra cosa che stiamo forse imparando è il concetto di interdipendenza. Il medico e sociologo Nicholas Christakis dell’Università di Yale, sottolinea come viviamo un momento particolarmente complesso in cui “così come dobbiamo prendere le distanze gli uni dagli altri dobbiamo anche unirci come gruppo”. “Una pandemia,” evidenzia Christakis, “è una prova particolarmente dura per la nostra capacità di cooperare, perché dobbiamo cercare di proteggere non solo le persone che conosciamo ma anche quelle che non conosciamo (o che non ci interessano)”. Lasciare indietro qualcuno, come abbiamo fatto in questi anni con i molti invisibili del nostro paese, può significare mettere a rischio tutti.

Nei nostri appunti, allora, potremmo segnare questo proverbio africano: “Se vuoi andare veloce, corri da solo; se vuoi andare lontano, corri insieme agli altri”.

 

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