Università di Torino

L’articolo qui riprodotto fa parte della rassegna Una svolta “dal basso” nel cuore dell’Europa: la Friedliche Revolution, la Germania verso la caduta del muro di Berlino


Gian Enrico Rusconi, Quale rivoluzione, quale patriottismo, “Micromega”, 2, 1990, pp. 208-216. 


1. Che “rivoluzione” è stata quella della Repubblica Democratica Tedesca, che porta a risolvere la questione dell’unità tedesca ridando fiato a toni neo-nazionalistici? Si esasperano le contraddizioni latenti nel concetto di patria e patriottismo, fondendo e confondendo solidarismo democratico e solidarismo nazionale. Anziché pacificarsi, si riaccende quella “memoria dei confini” che è una delle ferite più profonde della Germania.

Si obietterà che tutto questo non è imputabile alla sollevazione democratica dell’ottobre/novembre 1989, ma al modo in cui il governo di Bonn (o il cancelliere Helmut Kohl in persona) gestisce il processo di riunificazione. È vero: ma è stata la “rivoluzione” nella RDT ad affidare con sorprendente facilità i suoi obiettivi e i suoi sogni al progetto di riunificazione. Il rilancio politico della questione nazionale non è venuto dai “circoli reazionari della Repubblica Federale” o dalle pagine della Frankfurter Allgemeine, ma dal “popolo della RDT”, dagli slogan della città-eroe di Lipsia. I valori della nazione sono stati riproposti dalla catastrofe morale e politica – prima ancora che economica – del socialismo reale.

Se vogliamo riprendere seriamente il discorso sulla vera o presunta risorgenza del nazionalismo tedesco, dobbiamo cominciare da una analisi disincantata di quanto è accaduto nella RDT dall’ottobre 1989 a oggi. Non c’è stata una “rivoluzione” in senso forte, ma una insurrezione popolare che ha lasciato una situazione politicamente sospesa. È tentante parlare della solita mezza-rivoluzione tedesca (come nel 1848, nel 1918-19 o nella introduzione della democrazia tra il 1945 e il 1949) – una situazione costretta a incanalarsi in una questione nazionale e internazionale prepotente al punto da addomesticare ogni tensione innovativa. Ma più che le analogie storiche interessano qui le peculiarità odierne di una rivoluzione “civile” compiuta rimasta politicamente incompiuta.

Interrogarsi sui caratteri dell’ottobre/novembre 1989 non significa affatto sminuirne il valore o la straordinarietà. Semplicemente constatiamo che la straordinaria sollevazione popolare nella RDT ha dislocato subito mentalmente e politicamente la sua problematica nel rapporto con l’altra Germania. I contenuti della rivoluzione si sono ridefiniti nei termini della aggregazione al nuovo Stato unitario, nazionale. La sinistra considera tutto questo una disgrazia. Ma le sue repliche sono state sinora inadeguate, maldestre, controproducenti. Non è riesumando dimostrativamente il socialismo dei “senza patria” (Günter Grass) che si combattono i “tedesco-nazionali”. In questo modo rifioriscono gli equivoci di sempre: si auto-confermano reciprocamente.

2. Le mie riflessioni non iniziano dall’apoteosi mass-mediale della caduta del Muro di Berlino il 9 novembre. Prendono le mosse un mese dopo, dal 7 dicembre, quando si riunisce a Berlino Est la Tavola rotonda, espressione istituzionale della “rivoluzione”. Quel giorno sembrano poste tutte le premesse per una rapida e radicale trasformazione democratica della società e dello Stato della RDT. La “rivoluzione” dalle piazze sembra prossima a entrare nei palazzi del potere politico, amministrativo, giudiziario; nei luoghi della decisione economica, nella gestione della scuola, della cultura. Invece non è così: il vecchio ordine si paralizza, si delegittima, si autocensura, ma non decolla nessun nuovo ordine. Si crea una situazione di anomia controllata, gestita inizialmente dalla vigilanza della gente in piazza, poi dal ruolo pubblico politico delle nuove forze democratiche rappresentate nella Tavola rotonda. Ma con il passare delle settimane il ruolo di queste nuove forze sarà sempre meno quello dell’alternativa e sempre più quello della cooperazione/cooptazione con il governo autoriformato di Hans Modrow.

La sollevazione popolare ha posto fine ad un regime repressivo, con la conquista sul campo delle libertà fondamentali di parola, riunione, scelta elettorale, ma non sa “prendere il potere”. Scuote ma non travolge la vecchia classe politica. La logora ma non la sostituisce. La costringe a dire ad alta voce sgradevoli verità sul proprio conto, senza per questo dichiararsi vinta. Tant’è vero che la SED, ora PdS, si presenta alla prova elettorale  esibendo non solo la propria buona fede di rinnovamento, ma addirittura affidabilità di governo.

Chiariamo un possibile equivoco. I dubbi sulla natura della “rivoluzione” dell’ottobre/novembre tedesco non discendono dal fatto che è stata non-violenta. La violenza manifesta è sempre stata una componente significativa ma non determinante delle rivoluzioni storiche. Nel caso della RDT, la violenza non c’è stata perché il regime, dopo alcune prime circoscritte reazioni brutali, ha compreso l’inutilità del ricorso alla forza. Ha preferito la strategia dell’adattamento, che si è rivelata pagante. Ma c’è un punto da non dimenticare: il regime della SED, grazie alla sua costruzione ideologica repressiva interiorizzata (e sostenuta dal  controllo capillare della Stasi), aveva fatto ricorso alla violenza aperta e pubblica soltanto nei tentativi di fuga, nelle esecuzioni al Muro. Naturalmente non si tratta di un dettaglio secondario. Ma conferma che nella RDT la violenza legale si consumava in modo manifesto e brutale soprattutto, se non esclusivamente, quando c’era di mezzo il confine statale, l’allusione ad una unità nazionale spezzata. Contro la violenza interiorizzata del regime (ideologia + Stasi) è bastata l’insurrezione popolare di massa: per lo smascheramento della falsità del sistema non occorreva il ricorso alla violenza rivoluzionaria. Ma per andare oltre, per prendere possesso delle istituzioni piegate ma non spezzate, era necessario un altro tipo di energia politica che è mancata, perché dirottata sulla questione nazionale.

 

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