Università di Milano-Bicocca

A Milano centinaia di giovani, in gran parte minorenni, si riversano in Piazza Selinunte nel quartiere San Siro. È il luogo indicato via social da un giovane rapper per girare il video del suo nuovo pezzo. Non è la prima volta che capita qualcosa del genere. Nel 1987 gli U2, saliti sul tetto di un negozio di liquori di Los Angeles, si esibirono in una versione memorabile di Where the streets have no name creando non pochi problemi alla viabilità. Questa performance probabilmente prese spunto da un concerto improvvisato dei Beatles a Londra, nel 1969, che fu anche la loro ultima esibizione pubblica. Anche in questo caso migliaia di persone di radunarono spontaneamente ai piedi del palazzo di Apple Corps al numero 3 di Savile Row. A differenza di quanto accaduto con i ben più famosi suoi colleghi, l’assembramento durante le riprese del video del rapper milanese noto come Neima Ezza nell’aprile 2021 diventa immediatamente un caso di ordine pubblico. D’altra parte, le misure anti-covid sono ancora pienamente vigenti e vivere la città in modo non conforme a quelle regole non è tollerabile. Ma non basta richiamare l’eccezionalità dovuta alla pandemia per spiegare una tendenza culturale più profonda e che riguarda l’espulsione dei giovani e della loro vitalità dalla città.

Eppure la città è dei giovani. O almeno dovrebbe esserlo.

La città è il luogo in cui fare esperienza della vita. Per questo è temuta e ricercata: luogo della perdizione e della formazione, della trasgressione e della consapevolezza, della sregolatezza e della conformità. Luogo delle paure e dei desideri.

È possibile ridurre questa molteplicità facendo della città un luogo senza ombre?

Le politiche urbane degli ultimi decenni sembrano percorrere precisamente questa strada. La questione sicurezza ha pervaso il campo politico e orientato gli umori collettivi verso la costruzione di una città all’insegna della “prevedibilità difensiva”. Lo spazio privato va difeso, quello pubblico va reso come fosse privato. Tutto dev’essere riportato a un’esperienza urbana luminosa, rassicurante e gratificante e il segreto sta nel creare spazi in cui ci si possa sentire sicuri di chi s’incontra perché tutti coloro che li vivono sono proiettati a fare la stessa cosa. Nelle piazze commerciali, negli autogrill, nelle città turistiche e persino nei parchi urbani la sicurezza è data dalla conformità dei comportamenti in percorsi segnati e segnalati all’interno di spazi monofunzionali che impediscano gli incontri e mantengano le distanze. Ben prima delle misure anti-covid l’esperienza urbana viene ripensata come individuale, esclusiva e identitaria. Si rivendica una separazione, non una mescolanza. Prevale la paura del contatto sul desiderio di condividere.

Lo spazio del consumo, in particolare, diventa il luogo urbano per eccellenza. Fare shopping è ciò che di meglio si possa desiderare da sé e dagli altri. Anni fa erano in pochi a parlare di un cambiamento antropologico del cittadino in consumatore.

Oggi è sotto gli occhi di tutti ed è la stessa città a portarne i segni visibili: non c’è luogo urbano degno di essere vissuto che non sia innanzitutto luogo di consumo. Tutto il resto è non luogo da attraversare il più velocemente possibile.

La priorità di voler vivere una vita asettica, priva di rischi di contaminazione, si nutre dell’idea, ormai tornata a essere parte del modo di pensare diffuso, che i conflitti debbano essere rimossi perché disfunzionali. Si assiste così nuovamente a una loro dislocazione nella sfera del controllo penale o poliziesco, la quale si presta più di altre a funzionare da deposito di istanze di immunizzazione/sicurizzazione. Nella sfera del controllo tutto si riduce a una tensione tra noi e loro e a uno scontro tra normalità e devianza.

In queste strettoie lo spazio della novità esiste solo se funzionale alla città del consumo. Innovazioni di altro tipo sono una perdita di tempo. Paradossalmente, persino l’immaginario trasgressivo legato alla musica rap e trap acquista legittimità in quanto strettamente legato a interessi economici, fissandosi come modello alternativo a una conformità che finisce così per rafforzarsi. O sei conforme o sei trasgressivo. Non c’è altro, non si propone altro.

Vista da questa prospettiva, la città perde la caratteristica che le è propria, la contraddizione, e con essa la capacità di generare novità a partire dai conflitti. Smette di essere il luogo dell’esperienza formativa, limitandosi a modellare le vite in funzione di un unico parametro.

Non è più una città per giovani, a meno che questi non abbiano soldi da spendere e non si conformino in tutto e per tutto a un modo di vivere la città prevedibile e consono alle esigenze difensive del quieto vivere.

La domanda che dovrebbe assillarci non è tanto quale spazio dare ai giovani in politica, in questa politica, e nemmeno quali spazi destinare ai giovani, magari a pagamento, ma se abbiamo ancora voglia di pensare alla città come luogo di incontro e scontro di immaginari sociali diversi. Riusciamo, in definitiva, a tollerare che un parco venga utilizzato non per fare jogging ma per passare una serata a divertirsi facendo un po’ di baldoria; che un’area commerciale del centro possa essere occupata da attivisti contro il cambiamento climatico, per la pace o persino contro la dittatura sanitaria (per citare un tema che mette alla prova la mia capacità di tolleranza); che una strada possa essere invasa dalle biciclette o dai pedoni in modo da invertire il rapporto di forza con le auto nell’uso della città; che un quartiere periferico diventi improvvisamente il punto di ritrovo di centinaia di giovani che desiderano ascoltare la loro musica dal vivo? Anche se quella musica non è il jazz di Piano City?

L’ansia di controllo, in ogni ambito, sta comprimendo una vitalità che ha bisogno di creare conflitti per generare cambiamento sociale. Il ruolo delle istituzioni può essere decisivo, a patto che riescano a immaginarsi oltre la funzione di controllo.


Foto di copertina © Kyle Taylor 2008
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