Segretario Generale dell’Associazione Mecenate 90 e dell'associazione CIDAC.

Quando parliamo di progettare le città sulle competenze, a che cosa ci riferiamo? Di quale città parliamo? La città contemporanea ha cambiato pelle. Quella novecentesca è stata definita la città “fordista”. Si caratterizzava per la concentrazione delle attività industriali all’interno del tessuto urbano, per la presenza di fabbriche di grandi dimensioni (ad esempio lo sviluppo di Torino è fortemente ancorato a quello della Fiat), per gli alti tassi di inurbamento di manodopera non professionalizzata (alimentato dalle migrazioni dal Sud), per la concentrazione e la crescente importanza di servizi (sociali e alle imprese) e di infrastrutture (alloggi, strade, mezzi pubblici), per l’ampliamento progressivo delle funzioni dei governi locali come erogatori di servizi pubblici. Era anche una città (e una società urbana) disciplinata da tempi e processi organizzativi rigidi e da una altrettanto rigida separazione fra luogo e tempo di lavoro (la fabbrica, l’ufficio) e luogo e tempo per le attività del tempo libero.

Questa città non esiste più, o va sfumando. Oggi, nella terza età industriale, tuttora in corso, la città è definita “postfordista” o “postindustriale” ovvero “postmoderna”. Le trasformazioni delle città hanno generato spazi ed edifici inutilizzati: ex uffici, ex scuole, ex mercati, ex depositi ferroviari, ex caserme. Un fenomeno che accomuna grandi, medie e piccole città, il Nord come il Sud del Paese. Per certi versi è uno dei tratti che unisce la città contemporanea. Ed è su questo elemento che è opportuno ragionare, perché proprio questi spazi, quando trasformati in luoghi, hanno dato vita a quel complesso processo che va sotto il nome di “rigenerazione urbana”.

Vuoti senza destino hanno trovato nuove funzioni grazie ad un nuovo civismo, a giovani creativi, a professionisti che, a loro volta, in questi luoghi hanno maturato competenze, creato opportunità che, in molti casi, hanno condiviso con le comunità di riferimento. Progetti fondati su pratiche collaborative che hanno generato valori relazionali ed ecosistemi abilitanti. Ci sono ormai molti casi di successo rintracciabili in ogni angolo del Paese. Le loro storie hanno origini diverse e sono maturate in contesti in cui, spesso, si sono confrontate con norme e procedure obsolete, oltre che con una pubblica amministrazione priva di competenze adeguate per governare questi processi. Un aspetto questo di particolare importanza che mette in luce la inadeguatezza dei codici della pianificazione urbana del secolo scorso e dei relativi modelli di governance.

Sono, infatti, progetti di ridisegno delle città senza ricorso al cemento, al consumo di suolo. Eppure, usando una distinzione presente nel vocabolario francese, intervengono allo stesso tempo sulla ville (la città materiale) e sulla cité (intesa come organizzazione sociale). Quando diventano luoghi, si trasformano in piazze moderne, sperimentano nuovi modelli di sostenibilità economica, creano nuove centralità nella città, nascono da progetti individuali che diventano progetti condivisi.

Spesso i promotori non hanno una meta definita ma mettono in conto un esito diverso da quello immaginato. Fanno ricorso all’adattamento attivo. E il profit e il no profit convivono senza egemonie. Sono spazi collaborativi che nascono da sistemi di relazioni inediti, cambiando le gerarchie e i modelli tradizionali. Per questo generano innovazione sociale e culturale. A sostegno di questa rappresentazione si possono fare molti esempi: ex caserme (progetto Grisù a Ferrara); ex stabilimenti industriali (Fadda a San Vito dei Normanni di Brindisi); ex fabbriche (BASE a Milano nell’ex Ansaldo); un ex convento nei Quartieri Spagnoli a Napoli, diventato un luogo di inclusione sociale con la Fondazione FOQUS; l’ex Mira Lanza, a Roma, dove nel campo rom sono stati ospitati artisti che hanno realizzato un “museo” fra palazzine pericolanti e fabbricati fatiscenti.

Senza considerare gli interventi di rigenerazione nelle periferie delle città attraverso l’arte pubblica, il muralismo. Questi, e tanti altri, sono veri e propri laboratori di sperimentazione e innovazione che indicano una direzione possibile per costruire nuove competenze, crescita professionale e soprattutto, una diversa maniera di pensare e gestire le città contemporanee, fuori dalle logiche dominanti del mercato (non dell’economia) e della speculazione immobiliare.

In un tempo in cui l’angoscia sociale si fa diffidenza verso l’altro, in questi luoghi si pratica un modo nuovo di lavorare, di vivere, di partecipare alla costruzione di comunità generative in città comunitariamente vissute. Le difficoltà non mancano ma le opportunità sono potenti.


Verso About a city

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