[…] who is society? There is no such thing. There are individual men and women, and there are families […].
Queste famose dichiarazioni furono pronunciate da Margaret Thatcher nel 1987. Lungi dal costituire una “profezia”, come spesso si sente dire, tali affermazioni vanno lette in modo retrospettivo. Per coglierne la radicalità è opportuno osservarle con una sensibilità storica. Quando proferisce queste parole, infatti, Thatcher è all’inizio del suo terzo mandato da Primo ministro britannico, dopo un incarico (il secondo, dal 1983 al 1987) segnato dallo scontro (per lei vittorioso) con i sindacati britannici e la classe operaia inglese. È alla luce di questo contesto che vanno comprese le sue parole. Affermare che non esiste la società, ma solo gli individui, significa dichiarare l’inconsistenza di forme collettive di organizzazione e azione di classe.
Perché tornare oggi su queste questioni? La ragione è semplice: la storia del Primo maggio è radicata nell’azione e nell’organizzazione collettiva di classe – della classe operaia. Di più, questa storia affonda le sue radici nelle rivendicazioni collettive di quest’ultima. Senza la dimensione di collettività evocata da concetti come «classe» e «società», senza le forme di organizzazione e rivendicazione collettiva che il movimento operaio ha costruito nella seconda metà dell’Ottocento non ci sarebbe, oggi, nessun Primo maggio. Da una parte, dunque, il fatto stesso che il calendario civile di oltre novanta paesi nel mondo indichi in questa data una giornata di festa e mobilitazione suggerisce di relativizzare l’affermazione thatcheriana sulla prevalenza degli individui rispetto ai corpi collettivi. Dall’altra parte, tuttavia, occorre nuovamente problematizzare la questione tramite uno sguardo storico.
Per quanto non profetica, infatti, la dichiarazione di Thatcher non aveva una funzione solo retrospettiva, ma anche prescrittiva. Essa, in altre parole, indicava una direzione che le società occidentali hanno, per buona parte, effettivamente percorso negli ultimi trent’anni. Lo smantellamento delle grandi concentrazioni produttive, l’uso di forme contrattuali «atipiche» (ormai pienamente tipizzate) in grado di aggirare le norme più stringenti a tutela del lavoro introdotte negli anni Sessanta e Settanta, la diffusione del modello dell’auto-imprenditorialità, il dilagare del precariato: questi fenomeni, che caratterizzano le nostre latitudini dalla fine degli anni Ottanta, sono stati, a un tempo, il presupposto e il risultato della crisi delle forme collettive di azione, organizzazione e rivendicazione della classe operaia.
Più in profondità, si potrebbe affermare che tale crisi non ha investito solo le sue forme (un tempo si sarebbe detto: la classe per sé), ma la sostanza stessa della classe operaia (sempre giocando con i passatismi: la classe in sé). Come un dinosauro qualsiasi, la classe operaia avrebbe incontrato il suo meteorite più o meno alla fine degli anni Novanta, portando con sé nell’estinzione la semantica classista. «We are all middle class now», diceva Tony Blair, a capo del Labour, nel 1999: come è evidente, ciò equivaleva ad affermare l’inesistenza delle classi tout court.
Eppure, come sottolineava già Pierre Bordieu, quella dell’esistenza o meno delle classi non è una questione tecnica, ma immediatamente politica: è essa stessa una posta in gioco nella lotta fra le classi. Del resto, come è stato recentemente sottolineato, che esistano le classi – nel senso di «una classificazione degli individui in base alla differente posizione occupata all’interno del processo di produzione e riproduzione della società» – è scontato, ma questo non comporta necessariamente l’esistenza della classe, cioè di un processo conflittuale di rifiuto pratico «della posizione a cui sembra di essere destinati dall’organizzazione complessiva della società». Anzi, il passaggio dalle classi come dato sociologico alla classe come elemento politico è la posta in gioco di quella organizzazione, azione e rivendicazione collettiva cui prima si faceva riferimento. Oggi, in Europa, questo processo pare bloccato. Da un lato, l’individualismo neoliberale e il suo apparato ideologico (il merito, la concorrenza ecc.) sembrano aver definitivamente soppiantato qualsivoglia sentimento di appartenenza collettiva. Dall’altro lato, anche laddove l’individualismo viene superato, si verifica la ricostituzione di corpi comunitari (etnici, religiosi, nazionali) che non si possono definire in termini di classe.
È possibile superare questa impasse? Qualsiasi tentativo di risposta implica una distinzione dei contesti entro cui la domanda si applica. In Francia, per esempio, la recente sollevazione contro la riforma delle pensioni sembra costituirsi esattamente in questa processualità: organizzazione, azione e rivendicazione collettiva di classe – una «classe» certamente intesa in modo plurale, «moltitudinario», capace di far convergere al suo interno diverse istanze. In Gran Bretagna, Germania, Spagna e Portogallo si susseguono scioperi in diversi settori (sanità, trasporti, istruzione, pubblica amministrazione ecc.) che chiedono migliori condizioni contrattuali e salariali alla luce della crescente inflazione, dell’aumento del costo della vita e delle incertezze a cui il nostro presente è consegnato. Viste in prospettiva, queste mobilitazioni non sono settoriali, né tantomeno vertenziali, ma appaiono in grado di mettere in discussione l’intero apparato di produzione e riproduzione della società in un momento in cui il contesto bellico generato dall’invasione russa in Ucraina richiederebbe, per quanto più possibile, una pacificazione sociale interna della comunità europea.
Su questo fronte l’Italia arranca. Al netto di alcune lotte che provano, pur non senza difficoltà, a contestare la produzione e riproduzione sociale, nella sinistra istituzionale sembrano prevalere la paura della conflittualità e il timore della particolarità. Eppure, come insegna la storia del Primo maggio, è proprio grazie all’organizzazione, all’azione e alla rivendicazione collettiva di classe – cioè: conflittuale e di parte – che è possibile ottenere un miglioramento delle condizioni non solo di lavoro, ma soprattutto di vita.