A un anno dalla scomparsa di Gino Strada, il suo pensiero e la sua azione quasi trentennale con Emergency continuano a interrogarci. Domande che ci fanno riflettere non su chi siamo, ma su chi potremmo non essere
Gino Strada muore il 13 agosto 2021.
Nel tempo intercorso tra quella dipartita e noi oggi stanno molte cose: la guerra in Ucraina; la crisi economica prossima ma da tutti percepita come già attiva; lo smarrimento complessivo dell’Occidente.
Dietro c’è un quadro complessivo che è rimasto acceso anche grazie all’azione di Emergency, all’impegno di pensare «umano» promosso e sostenuto da Gino Strada, ma anche dalla sua «ira», o dal fatto che agire umanamente fosse il segno di uno «scandalo» in questi ultimi 30 anni.
I dati prima di tutto.
La Siria, lo Yemen, il Sud Sudan, la Repubblica Centrafricana, il nord del Mozambico (Cabo Delgado), nel Nord Kivu e Ituri della Repubblica democratica del Congo, la guerra civile nel Tigray in Etiopia. Sono solo alcune delle 22 guerre ad alta intensità del 2021, sei in più rispetto all’anno precedente, quando erano 15 (dati Caritas italiana). Se invece si tengono in considerazione anche le crisi croniche e le escalation violente si arrivava a 359 conflitti nel 2020. Tra il 2020 e 2021 le persone bisognose di assistenza umanitaria, sono aumentate del 40%, per un totale di 235 milioni di persone coinvolte.
Questi sono i dati con cui fare i conti a un anno dalla scomparsa di Gino Strada. Come spesso accade quando si fa un bilancio, è del problema che abbiamo che stiamo parlando. L’atto di omaggio è solo una tattica per rispondere a un bisogno e cercare le parole per renderlo esplicito.
Rimaniamo dunque a oggi e ripartiamo da quella data: 13 agosto 2021.
All’inizio, due giorni dopo quella morte, ma forse ce ne siamo completamente dimenticati, l’abbandono di Kabul da parte della coalizione internazionale a guida statunitense. Quella scena, a un anno di distanza, ci sembra quella meno inquieta, un po’ perché si colloca in un mondo che direttamente ci sembra non avere relazioni e conseguenza con la nostra vita quotidiana (lasciamo perdere quale vita ha ripreso il suo corso a Kabul), un po’ perché le sue conseguenze sono tutte consumate.
Dal libro Una persona alla volta, di Gino Strada
Penso che se Gino Strada fosse qui in questi mesi non avrebbe fatto altro che ribattere il chiodo su quella scena. Non perché più drammatica delle altre, ma perché essa è illuminante (non determinante) del suo percorso pubblico. Ovvero, del suo «mettersi al bivio» e «andare in direzione ostinata e contraria».
Almeno su tre punti diversi.
Il primo riguarda l’analisi di quella scena. Ovvero la presa in carica del «dato di fatto».
In Pappagalli verdi, a un certo punto Gino Strada ricorda come lo avesse segnato la visione di Urla del silenzio di Roland Joffé, il film che con crudezza parla della Cambogia dopo il ritiro statunitense, delle violenze degli Khmer rossi, del totalitarismo sterminazionista di Pol Pot. Una storia che nessuno in tempo reale voleva ascoltare. Anche lui, all’inizio. Tant’è che solo anni dopo, ricorda, andando a vedere la versione originale durante un suo soggiorno di lavoro negli Stati Uniti, assume su di sé il senso inquietante delle domande che stanno in quel film.
«Non c’erano dubbi allora – scrive Strada – su chi fossero i buoni e chi i cattivi. L’aggressivo imperialismo statunitense, i gendarmi del mondo, baluardo degli interessi economici delle multinazionali. Noi invece stavamo dalla parte dei deboli, dei contadini innaffiati dal napalm o delle donne costrette nei bordelli a prostituirsi agli invasori».
E poi aggiunge: «Tutto troppo semplice, come avremmo capito molti anni dopo. Lentamente e con fatica, avremmo scoperto che il mondo non era esattamente a due colori, ma che in mezzo ci poteva stare un’infinità di sfumature» [p.102].
In breve, la realtà non fa sconti. Nemmeno noi dobbiamo farne. Può essere scomodo, ma la scomodità è l’ultimo dei nostri problemi. Il primo problema che dobbiamo risolvere consiste nel riconoscere il dato di fatto. Matter of facts, non parole.
«Davanti a un problema, avevo bisogno di fare», scrive nelle prime pagine di Una persona alla volta, il testo autobiografico scritto come bilancio a futura memoria e uscito in libreria nel marzo di quest’anno.
In ricordo di Gino Strada, Marco Paolini, Drammaturgo
Il secondo riguarda l’intransigenza e dunque la postura da assumere di fronte a quella scena.
In Buskashì, fra le molte storie di ingiustizia e strategie di trattativa per affermare brandelli di giustizia universalistica, a un certo punto Gino Strada racconta una storia che lo coinvolge professionalmente perché lo mette di fronte al comportamento dei suoi colleghi. La storia è quella di Rahmatullah, un miliziano talebano che Emergency riesce a portare in ospedale dal carcere dove si trova. Il problema, tuttavia, non è il trattamento subito in carcere, ma è come quel miliziano talebano, ferito al femore, è stato trattato in precedenza in un ospedale della Croce rossa. Cinque giorni in terapia e poi dimesso.
Rahmatullah è il suo nome e quella storia è paradigmatica non solo della guerra, ma anche della possibilità o meno di godere di diritti.
Riprendo le parole di Gino Strada:
«C’è un ragazzo con un femore a pezzi che ha bisogno di chirurgia urgente. Viene portato in ospedale, dove viene operato, o qualcosa di simile, e si infetta. Una complicazione può succedere, non è la cosa più grave, non è questo che ci fa paura della storia di Rahmatullah. Sono piuttosto i due piccoli fori sulla gamba che ci spaventano: attraverso la tibia era stato fatto passare un filo metallico per attaccarci corda, carrucola e pesi, così da mettere il paziente in trazione per curarne la frattura. Era la sua terapia. Rahmatullah avrebbe dovuto stare in trazione almeno otto settimane. Però dopo cinque giorni qualcuno ha fatto togliere il ferro dalla trazione, e si è permesso che un paziente gravemente ferito finisse in galera, sapendo con certezza che non vi sarebbe rimasto a lungo, vivo.»
E dunque Gino Strada si chiede:
«Chi ha deciso di negare a Rahmatullah il diritto di essere curato, interrompendone la terapia? Chi ha deciso di abbandonare e lasciarlo morire, con ogni probabilità fra atroci sofferenze in una cella di massima sicurezza? Chiedo che vengano scattate alcune fotografie».
Perché è importante scattare quella foto?
«Basterà mostrare quei due piccoli fori per ricordare che i diritti umani non sono un optional e che hanno valore solo se si applicano a tutti, anche a Rahmatullah. Se non valgono anche per lui, non stiamo parlando dei diritti di tutti, ma dei privilegi di pochi, di solito dei nostri». [pp. 156-157]
Non so se ancora oggi basterà mostrare quella foto, ma è il principio proprio dell’illuminismo di Voltaire che conta in questa riflessione ad essere essenziale.
Quella lezione noi dobbiamo portarla a casa perché preziosa e utile in tempi di crisi delle democrazie, quale quella che noi stiamo vivendo: la tolleranza, ci insegna Voltaire, si afferma non se si illustra il principio generale, ma se si evidenzia il punto di crisi in cui quella battaglia diventa ineludibile a partire da una storia concreta che non consente a nessuno di svicolare o nascondersi nel discorso generale o fare esercizi di doppiogiochismo, mascherati da argomentazioni raffinate (un esercizio retorico che negli ultimi mesi abbiamo registrato quotidianamente in tutti i format di cosiddetto “approfondimento”).
Per chiunque, dovunque non è un principio astratto. È la conseguenza di una storia concreta, con nomi, cognomi, luoghi, responsabilità. Soprattutto responsabilità. Qui sta anche il senso di quella Preghiera a Dio con cui Voltaire si volge a concludere il suo breve Trattato sulla tolleranza, una testo in cui ateismo e deismo si incontrano o, almeno, coabitano. Proprio in nome di quella intransigenza che non è insensibilità.
Alla rovescia: è impegno esigente, perché non disponibile a fare sconti ad alcuno. Un tratto che è anche innervato di malinconia o di consapevole solitudine e che vive della crudezza dello sguardo su ciò che c’è intorno senza pensare che domani andrà meglio, ma che questa possibilità sta nel prendersi la responsabilità di provare a fare, non da soli, avendo di sé un’idea titanica, ma solo insieme. Un principio che sta alla radice del pensare società civile domani, come ha ricordato molte volte Salvatore Veca a partire dalle pagine Montaigne [Saggi, Libro I, §, XXVIII) e soprattutto con le parole di Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani a proposito dei vincoli dell’amicizia (ma forse non ignorando le pagine struggenti di Vasilij Grossman in Vita e destino [Libro II,§. 8]).
Il terzo riguarda i principi generali che abbiamo assunto come progetto di convivenza.
Il rischio in un’epoca di falso unanimismo è che confondiamo umanità o generosità con interesse e viceversa.
Il tema è la rilevanza e l’ineludibilità del dettato della Dichiarazione universale dei diritti umani che significativamente Gino Strada chiede all’editore Feltrinelli di inserire in appendice a Buskashì.
Quel richiamo a una tavola di principi non è astratto, avviene in un tempo in cui la cura del corpo degli altri – amici e nemici – non è sganciata dall’idea di cultura che si ha e, dunque, di dignità.
Da Che Storia!, l’intervento di Francesca Mannocchi, giornalista e scrittrice
Due sono le scene che stanno a monte e a valle di quella scelta di principio che credo spieghino il perché di quella necessità: non solo di ribadire un principio ma anche di fissarne la rilevanza rispetto a un dettato che nessuno osa pubblicamente rinnegare.
Prima scena: Sarajevo, 25-27 agosto 1992. Riprende la guerra al libro, una guerra che pensavano non appartenesse più al nostro tempo, ma che invece si è ripresentata potente.
Riprendo dalle parole András Riedlmayer, che quella scena ha descritto con sensibilità:
«I miliziani serbi, appostati sulle colline che circondavano Sarajevo, battevano l’area intorno alla biblioteca con il fuoco delle mitragliatrici, cercando di impedire ai vigili del fuoco di spegnere l’incendio lungo le rive della Miljacka, nella città vecchia. Le raffiche delle mitragliatrici facevano volare le schegge dal palazzo merlato costringendo i pompieri a ripararsi. […] Quando abbiamo chiesto a Kenan Slinic, comandante dei vigili del fuoco, perché mai rischiasse la vita, egli, sudato, coperto di fuliggine, a due metri dalle fiamme, ha risposto: `Perché sono nato qui e loro stanno bruciando una parte di me’».
Può apparire una risposta ovvia, eppure nasconde un confronto con il significato profondo della guerra al libro che sarebbe sbagliato non considerare.
«In tutta la Bosnia – prosegue Riedlmayer, – biblioteche, archivi, musei e altre istituzioni culturali pubbliche e private furono destinate alla distruzione nell’intento di cancellare le testimonianze materiali – libri, documenti, opere d’arte che potessero rammentare alle generazioni future che vi fu un tempo in cui persone di diverse tradizioni etniche e religiose condividevano in Bosnia la vita e un patrimonio comune». E conclude: «Il fatto stesso di distruggere le istituzioni e la documentazione di una comunità fa parte in prima istanza di una strategia di intimidazione, il cui scopo è espellere i membri dei gruppi presi di mira: tuttavia tale distruzione svolge un preciso ruolo anche a lungo termine. Quei documenti erano la prova che in quel luogo vivevano anche altri, altri che lì avevano le proprie radici».
Questo dunque voleva dire Kenan Slinic quando affermava che stavano bruciando una parte di sé.
Seconda scena:18 agosto 2015, il giorno in cui il corpo Khaled al-Asaad, l’archeologo siriano custode di Palmira, torturato, ucciso e decapitato è “mostrato al mondo” nella violazione del suo corpo.
Palmira è come la biblioteca di Sarajevo. Palmira, infatti, non è solo un bene culturale dell’umanità che il fanatismo ha tentato di violare ed è quasi riuscito completamente a distruggere. Palmira per la sua storia e per la sua costruzione, per la lingua che circolava nelle sue vie in antichità, l’aramaico, una lingua che non è di nessuna nazione ma che vive dell’intreccio e della capacità di tenere insieme più lingue e più saperi e, per questa via, fondare un sapere che funziona da crocevia. L’aramaico non era la testimonianza del compromesso, e dunque della rinuncia, al contrario – era la testimonianza del “meticciato” come luogo di produzione di sapere aumentato.
«Saggezza meticcia» vuole dire cultura che si costruisce per incroci, sovrapposizioni, ibridazioni. Una cultura che non è «figlia di un dio minore», ma che è «di più».
È importante ricordare che non esistono nella storia culture pure e che non hanno mai tradito il loro codice originario. Le culture, quelle che sopravvivono nel tempo, sono sempre il risultato e l’effetto di prestiti: danno ad altri, ma soprattutto si mantengono nel tempo perché da altri ricevono.
Cultura viva significa prendere atto che ogni cultura non è mai uguale a se stessa, ma è significativamente se stessa se continuamente ripensa, modifica, assume risorse, concetti, fondamenti che arrivano da altre parti. Una cultura è viva come conseguenza di questo processo di costante mescolamento e di ibridazione, perfino con quelle culture con cui pure è in aspro conflitto e da cui afferma non solo di distanziarsi, ma anche di contrapporsi all’assimilazione, interpretata ideologicamente come la morte di sé, come il venir meno a se stessi.
Palmira era esattamente la testimonianza e la memoria di questo processo: un luogo che nel tempo produce meticciato culturale; il segno dell’intercultura, più che della multicultura. Il primo tentativo di grande esperimento, direbbe Yasha Mounk.
Per questo Daesh l’ha voluta distruggere.
Ma anche per questo è importante, come scrive Gino Strada, assumere la Dichiarazione universale dei diritti umani come un testo da sapere che c’è, da “tenere nel portafogli” come sapere tascabile a cui ricorrere, “pronto uso” da tenere in tasca per non dimenticare non chi siamo, ma che cosa possiamo non essere, se proviamo, appunto, a fare qualcosa.
Perché il tempo non è una risorsa infinita. E occorre fare qualcosa subito. Ora.
Fotografia: Pietro Naj-Oleari