Viktor Orbán ha vinto per la quarta volta consecutiva. Il verdetto delle urne è stato un brusco risveglio per quanti avevano riposto le loro speranze di cambiamento in “Uniti per l’Ungheria”, l’alleanza di sei partiti dell’opposizione.
Il premier e i suoi parlano ora di “vittoria storica”, di un successo ottenuto contro tutto e tutti sui fronti interno ed esterno. Interno contro un blocco d’opposizione formatosi con l’obiettivo di porre fine al sistema illiberale del Fidesz; esterno, fa notare il primo ministro, “contro il globalismo, contro Soros, contro i media mainstream europei e anche contro il presidente ucraino”. Infatti quest’ultimo, alla vigilia delle elezioni, aveva attaccato Orbán accusandolo di mancanza di onestà e di essere “l’unico in Europa a sostenere apertamente Putin”. E ancora, in un tripudio di toni trionfalistici il vincitore delle elezioni ha dichiarato che “Il Fidesz rappresenta una forza conservatrice patriottica e cristiana. È il futuro dell’Europa. Prima l’Ungheria!”
Questa nuova affermazione delle forze di governo ungheresi è stata salutata con favore da Vladimir Putin che si è congratulato con Orbán auspicando un incremento delle relazioni bilaterali proprio in un momento di grave tensione fra la Russia e l’UE, fra Mosca e l’Europa occidentale. Il più grave dall’epoca della guerra fredda. Le congratulazioni del capo del Cremlino non arrivano a caso: tra i due leader esistono da tempo buoni rapporti, Orbán in questi anni si è espresso più volte contro le richieste di sanzioni nei confronti di Mosca. Ora, nel frangente della guerra in Ucraina, ha scelto di assumere una posizione “neutrale” per tenere l’Ungheria fuori dal conflitto ed impedire che siano i suoi connazionali a pagare il prezzo del medesimo. Ha rifiutato l’opzione di far arrivare armi in Ucraina attraverso il territorio ungherese attirandosi le ulteriori critiche del presidente Zelens’kyj per indisponibilità ad aiutare l’Ucraina.
I rapporti tra Budapest e Kiev non sono idilliaci: il governo Orbán accusa le autorità ucraine di non rispettare i diritti della minoranza ungherese che conta circa 200.000 membri; la replica, dall’altro capo, è che l’esecutivo danubiano sostiene da tempo la politica russa in Ucraina.
Con il leader del Fidesz c’è stato un avvicinamento progressivo di Budapest a Mosca, avvicinamento criticato aspramente dalle opposizioni di centro-sinistra, centriste e liberali. Le questioni energetiche fanno la loro parte in questa storia: difatti, l’85% delle forniture di gas per il riscaldamento viene dalla Russia, lo stesso dicasi del 64% delle importazioni di petrolio e ci sono importanti investimenti russi in Ungheria anche in ambito nucleare. L’Ungheria è, inoltre, il primo paese europeo ad aver utilizzato il vaccino Sputnik V senza aspettare il parere dell’EMA, e sembra che il paese intenda produrlo in proprio.
A parte questo, è noto che Orbán si sente molto in sintonia con Putin in termini di tecniche di gestione del potere. A suo avviso i sentimenti antirussi sono ormai diventati di moda. Con un equilibrismo che lo contraddistingue e con il quale cerca di districarsi sulla scena internazionale, ha ricordato che il suo governo ha condannato l’intervento russo in Ucraina, che è preoccupato per l’integrità territoriale del paese attaccato, ma che il suo compito è quello di tutelare gli interessi nazionali e di evitare che l’Ungheria sia coinvolta nel conflitto. Così si è presentato al voto come “uomo di pace”, contro un’opposizione che vuole un’Ungheria solidale con l’Occidente, a maggior ragione in questa pesante crisi, e pienamente disposta a collaborare con l’UE e la NATO per aiutare concretamente l’Ucraina. Alimentando le paure già diffuse nel paese a causa degli eventi bellici in corso al di là del confine orientale, ha fatto in modo, con la propaganda, che Uniti per l’Ungheria fosse percepita dal grosso dell’opinione pubblica come parte politica che vuole trascinare il paese in guerra.
“Una guerra che non è nostra”, ha detto il premier. Questa tattica ha prodotto il suo effetto e mostrato di funzionare.
Quello dello scorso 3 aprile è stato un successo netto nei confronti del blocco d’opposizione; una vittoria che rafforza il ruolo di Orbán, nell’ambito della destra europea, e la sua valenza di icona politica in tale contesto. Oltre alle congratulazioni di Putin ha ricevuto anche quelle di Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Marine Le Pen e del premier sloveno Janez Janša. Come già precisato, per il primo ministro ungherese il Fidesz è il futuro dell’Europa. Tra i suoi progetti c’è quello di creare un forte partito della destra europea che non si limiti ad essere un’alternativa ma che assuma una posizione egemone sulla scena politica del Vecchio Continente. Un partito conservatore e cristiano che preservi l’identità culturale europea. Identità inequivocabilmente cristiana, secondo Orbán. La sua quarta affermazione consecutiva è quindi, per lui, un segnale chiaro a Bruxelles, una risposta di popolo alla tecnocrazia liberale nel segno della difesa delle sovranità nazionali.
Questa vittoria non appare, in fondo, intaccata dalla bocciatura del referendum sulla cosiddetta legge anti–Lgbtq, risultato nullo per mancanza del quorum.
Grazie a essa è prevedibile che Orbán accentui i tratti autoritari del sistema da egli concepito e guidato e mantenga la conflittualità nei confronti dei vertici dell’UE. La propaganda continuerà ad essere un investimento importante per il mantenimento e consolidamento del potere. Essa continuerà a scagliarsi contro Bruxelles, contro Soros, contro le multinazionali e i flussi migratori e, presumibilmente, ad avere tra i suoi bersagli anche il presidente ucraino.
Certo, il governo ungherese avrà un bel da fare: continuerà sì, ad avere un rapporto conflittuale con i poteri dell’Unione, ma dovrà agire con cautela anche perché ha sempre un grande bisogno dei fondi europei, a maggior ragione in questo momento, date le difficoltà economiche in cui il paese si trova, anche, se non soprattutto, per l’aumento del debito e dei prezzi. Probabilmente, la posizione assunta nel frangente della guerra in Ucraina e la conseguente frattura con il resto del Gruppo di Visegrád tenderanno a isolare Orbán in una certa misura sul piano internazionale, e a questo punto sarà interessante vedere come il leader ungherese si muoverà in tale situazione. L’altra domanda riguarda il futuro della coalizione creata per confrontarsi col Fidesz al voto di inizio aprile. Un’alleanza eterogenea in cui convivono diverse tendenze politiche: socialisti, verdi, centristi, liberali e i conservatori di Jobbik che hanno trascorsi da radicali di destra, xenofobi e razzisti. Il suo non è stato un percorso facile anche a causa di disaccordi interni che tra l’altro non hanno reso facile l’individuazione di un candidato da presentare alle presidenziali dello scorso marzo. Si è fatta portatrice di un’istanza di cambiamento che però è andata a infrangersi contro i bastioni del governo. Fra i suoi sostenitori c’è sconforto, amarezza e riprovazione per un paese che agli occhi di molti di loro sembra non voler cambiare. Un paese che il premier mostra di tenere in pugno usando ad arte lo strumento della paura e accreditandosi ancora una volta, con successo, come unico uomo politico in grado di prendersi cura dei suoi connazionali e di difendere la patria dai nemici esterni prima menzionati. La svolta appare ancora molto lontana.