I discorsi intorno alla povertà educativa hanno sofferto negli ultimi anni, di una afasia importante, e si sono mostrati spesso impermeabili a ogni contaminazione e perimetrati dentro a nicchie (e solitudini) di addetti ai lavori.
Forse, l’innesto al quale stiamo assistendo di ingenti risorse e progettualità nei territori può essere una occasione importante per reinventare, al di là di pratiche e logiche riparative ed emergenziali che caratterizzano oggi i progetti e gli interventi nella scuola in primis, parole, discorsi e narrazioni educative.
Troppo spesso si è declinata la povertà educativa come povertà economica, povertà materiale, povertà delle strutture che dovrebbero accogliere e sostenere l’educazione, povertà dei bambini e dei ragazzi che non leggono, che non accedono alla cultura, che non praticano sport. Molto abbiamo detto e scritto della povertà dei luoghi, delle strutture, dell’offerta, ma poco si è detto delle relazioni e delle esperienze che connotano “quei” luoghi, “quelle” strutture, quelle “offerte” tanto richiamate e dentro alle quali l’educazione si dà.
Se è vero che in Italia sono ancora numericamente troppo esigui gli asili nido, per esempio, varrebbe la pena però, domandarsi anche a quali condizioni andare al nido è esperienza educativa. Così come tanto, e giustamente, si richiama la necessità per i giovani di accedere a offerte culturali, sportive e partecipative. Ma quando una attività sportiva o culturale si connota come esperienza educativa e quando invece, si riduce a fruizione o prestazione?
Nei discorsi sulla povertà educativa si è anche detto molto della scuola e delle sue fatiche. E molto c’è da fare per ricostruire consenso intorno alla scuola e all’istituzione scolastica, strategico “stendardo educativo” che, nell’immaterialità dell’educazione, ne garantisce visibilità e riconoscibilità, presidia i territori, sostiene la costruzione di reti e legami sociali, previene, laddove presente, lo spopolamento dei territori.
Bisogna ricostruire consenso intorno alla scuola, anche attraversando, e non eludendo, le contraddizioni che la abitano: una scuola che progetta per competenze, ma valuta le conoscenze, una scuola che fa sempre più fatica a connettere “l’educativo con l’istruzione”, una scuola didatticamente molto specializzata, ma culturalmente povera e semplificante.
Sgomberando il campo, come già vent’anni fa Riccardo Massa teorizzava, dalla dicotomia tra educazione e istruzione, una dicotomia che altro non fa che ridurre e impoverire entrambi i campi semantici e di azione.
Ma l’educazione, così come l’istruzione, per forza o per fortuna, sconfinano dalla scuola e la povertà educativa non è solo povertà dell’istituzione scolastica.
Dobbiamo sconfinare, cercare l’educazione oltre la scuola (anche per riportarla a scuola), dobbiamo esercitare sguardi multifocali e operare un passaggio decisivo da una prospettiva che negli ultimi anni ha circoscritto il fenomeno della povertà educativa a povertà dei bambini, dei ragazzi e della scuola, a un orizzonte in cui riconoscere la povertà educativa come esito di molte altre povertà (e responsabilità): povertà di risorse, povertà culturali, povertà istituzionali, povertà professionali, povertà programmatorie… Una povertà adulta, una povertà degli adulti, siano essi genitori, insegnanti, educatori, commercianti, professionisti, amministratori, decisori che hanno, chi svuotato, chi saturato, il potenziale educativo di luoghi, istituzioni, relazioni, esperienze.
Molte povertà (e molte responsabilità) richiamate e descritte anche da diversi rapporti e pubblicazioni che negli ultimi anni, parallelamente o forse grazie, chissà, all’erogazione di risorse importanti per il contrasto alle povertà educative, hanno riportato sulla scena pubblica un discorso sulla povertà educativa e forse, negli interstizi dei discorsi, anche sull’educazione.
È del dicembre 2018 il rapporto del Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza che, coerentemente con una interpretazione multidimensionale della condizione di povertà di un bambino già richiamata nel rapporto di Save the Children del 2014 , propone un modello di indagine multidimensionale e multifattoriale che se ad oggi, costituisce un “punto zero” per la parzialità e la scarsità dei dati disponibili, potrebbe certamene rappresentare un riferimento importante per una comprensione della povertà minorile in chiave comparata (tra le diverse regioni italiane) e storica.
I dati proposti del rapporto del Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza richiamano certamente la necessità di superare la frammentazione delle responsabilità e di guardare allo sviluppo culturale, sociale ed economico dei territori quale condizione imprescindibile per allestire territori capaci di ospitare e sostenere le traiettorie evolutive di crescita dei giovani.
A marzo 2019 è stato anche diffuso il secondo rapporto nazionale sulla povertà educativa minorile, curato da Con I Bambini e da Openpolis che, nel ribadire la crescita della povertà tra bambini e adolescenti con un conseguente slittamento generazionale progressivo dell’indigenza e una sorta di “ereditarietà” delle condizioni di povertà, richiama la connessione, da non ridurre a coincidenza, tra povertà e povertà educativa: “come in un circolo vizioso, chi nasce in una famiglia in difficoltà economica avrà a disposizione meno strumenti per riscattarsi in futuro da una condizione di marginalità sociale. Sarà più propenso ad abbandonare la scuola prima del tempo, e da adulto avrà più difficoltà a trovare un lavoro stabile. Non si tratta solo un problema di gratificazione personale, ma anche sociale ed economico: si troverà con maggiore probabilità in disoccupazione, dipenderà più della media dai programmi di assistenza. E a sua volta, potrà offrire meno opportunità ai suoi figli, perpetuando questo circolo vizioso”.
Una povertà multidimensionale e multifattoriale che, se da un lato evidenzia la necessità di interventi e investimenti finalizzati a implementare tanto la quantità, quanto la qualità dell’offerta educativa per bambini e adolescenti, d’altra parte riabilita però, il “potenziale educativo” intrinseco anche in scelte programmatorie e interventi non specificatamente educativi.
Da un lato, si pone l’urgenza di investire nel potenziamento dell’offerta educativa di qualità. Basti ricordare che in Italia, la disponibilità di posti nei servizi per la prima infanzia (nidi e servizi integrativi) si attesta sul 23%, con picchi estremi tra il 42,3% in Valle d’Aosta e il 6,6% in Campania e un divario ancora del 10% rispetto all’obiettivo europeo fissato al 33%.
Dall’altro, si tratta di riabilitare il “potenziale educativo” di molte scelte programmatorie e strategiche: progettare oggi la mobilità, il verde pubblico, i regolamenti per l’utilizzo del suolo pubblico, la collocazione territoriale di presidi sociali e sanitari, per fare alcuni esempi, sono tutte scelte strategiche che concorrono a determinare la qualità della vita di bambini, adolescenti e giovani e la loro possibilità di stare in relazione e fare esperienza.
La povertà educativa necessità di investimenti “strutturali” importanti, ma esige assunzioni di “responsabilità educativa” da parte di chi , educatore e non, può e deve riabilitare il potenziale educativo dei luoghi di vita e di relazione di bambini e ragazzi, di chi può e deve oggi riallestire luoghi e contesti di relazione e di esperienza in cui bambini, adolescenti e ragazzi possano mobilitare, abilitare, condividere saperi, abilità, desideri.