E’ difficile scrivere delle inquietudini del nostro tempo, nel tentativo di comprenderne le ragioni e le conseguenze del loro diffondersi in tanta parte dell’opinione pubblica, senza fare i conti anche con le proprie irrequietezze di fronte ai fatti di oggi.

Motivo di irrequietezza è certamente la storia raccontata da Cristina Cattaneo in Naufraghi senza volto (Cortina Editore, 2018) : esaminando il corpo di un ragazzo di 14 anni, senza documenti, che si trovava sul barcone di migranti naufragato il 18 aprile 2015 – dove sono morte circa mille persone- Cristina Cattaneo ha scoperto, cucita nell’interno della giacca, una pagella con i voti delle materie scritte in arabo e francese. Ottimi voti, che per quel ragazzo rappresentavano la carta d’identità con cui presentarsi alle frontiere dell’Europa: dimostrare, cioè, di essere un bravo studente come chiave d’ingresso decisiva per essere accolto e integrato.

E’ difficile non cogliere il divario tra l’immagine della civiltà europea che quel gesto rivela e i toni di gran parte del dibattito politico odierno. Mi riferisco all’esaltazione della non competenza in politica,  accompagnata sovente da tagli sempre più consistenti ai finanziamenti destinati  alla formazione e alla cultura. Il 26 Gennaio 2019, il quotidiano «Le Monde» ha denunciato l’assenza clamorosa del  tema della cultura tra la trentina di questioni che il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron  ha presentato per il « grand débat » nazionale,  che dovrebbe permettere di trovare una via di uscita condivisa alla crisi politica generata dal movimento dei « gilets jaunes ».

A mio giudizio, la conseguenza più grave di questo disprezzo verso l’importanza della cultura è rappresentata dal diffondersi nel dibattito politico della convinzione che sia possibile trovare risposte semplici a problemi complessi. Quali sono le ragioni del successo di una convinzione cosi pericolosa? Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere ha scritto note, ancora oggi preziose, per trovare una risposta: nei momenti di crisi, quando un vecchio ordine sta morendo e uno nuovo non si è ancora affermato, possono emergere, dal lato del governo, un elemento carismatico teatrale e, dal lato della società, fenomeni di sfrenatezza e decadimento dello spirito pubblico. In questo contesto si sviluppano pulsioni del fulmineo, della decisione veloce ed efficace, una velocità del tutto apparente ma che rientra nelle manifestazioni di quello che Gramsci definisce « il teatralismo politico ». In queste fasi, inoltre, si tendono a creare dei capri espiatori (la casta, la cricca) mettendo in pratica un’operazione di depistaggio cognitivo che tende a colpire bersagli immaginari per lasciare inalterati i veri equilibri di potere.

In definitiva, per Gramsci l’utilizzo delle categorie di « dirigenti/diretti », « alto/basso » sono utilizzabili solo in connessione con una cultura politica che si ponga costantemente la domanda se questi elementi siano eterni o siano destinati ad essere superati. Sapendo che per superarli :« si tratta ,è vero, di lavorare alla elaborazione di una élite, ma questo lavoro non può essere staccato dal lavoro di educare le grandi masse, anzi le due attività sono in realtà una sola attività , ed è appunto ciò che rende difficile il lavoro »(Q.7, Appunti di filosofia II, N.43).

Su questo terreno si gioca, ancora  oggi, la sfida con l’elemento centrale della cultura politica populista :  una concezione del popolo omogenea e anti-pluralista, un’idea del popolo come un tutto che deve governare senza pluralismo politico e senza pluralismo sociale ; un’immagine di popolo, in definitiva, senza stratificazioni e interessi sociali.

Chi voglia opporsi seriamente a questa concezione deve chiedersi come mai essa abbia potuto consolidarsi nel secondo decennio  del secolo XXI proprio nel cuore delle società occidentali, a cominciare dal mondo anglosassone (Brexit e Trump) ?  La risposta si trova nella dimensione del terremoto sociale provocato dalla crisi economica dal 2008 a oggi : soltanto negli Stati Uniti 10 milioni di famiglie hanno perduto la casa, cioè a dire 30 milioni di persone si sono ritrovate in una situazione che rapidamente ha provocato una perdita di reddito, un’erosione dell’autostima e la rottura dei loro legami sociali. Si è formata una folla d’individui che si sono sentiti abbandonati e vittime di un’articolata catena di menzogne : catena che è cominciata con il comportamento fraudolento dei funzionari di banca che li avevano venduto prodotti derivati senza avvertirli del rischio che correvano ; che è continuata con le menzogne delle agenzie di rating che avevano attribuito il rang di A a pacchetti finanziari che loro stesse definivano, in privato, « spazzatura » o letteralmente « merda di cane ». E poi, sempre più su nella catena di bugie irresponsabili, la stampa, gli esperti silenziosi e condiscendenti, i politici ai loro occhi corrotti. Come stupirsi allora che il voto di una folla che si è sentita tradita e beffata dalle élites si sia trasformato ovunque negli ultimi anni in un voto di « vendetta » ancora prima che di « protesta », come ha acutamente osservato Marco Revelli (Populismo 2.0, Einaudi, 2017). Vendetta contro tutti coloro ritenuti responsabili del peggioramento delle proprie condizioni di vita e della perdita di senso verso il futuro.

Serbatoi di odio, generati da scelte politiche e non solo dalle leggi spietate dell’economia finanziaria, certamente da bonificare, sapendo pero’ che il populismo non è la malattia, ma il sintomo. Un sintomo che se non curato può degenerare e sta già degenerando in una malattia ancora più pericolosa : quelle forme di neo-fascismo, di nuovo nazionalismo aggressivo (oggi detto sovranista) analizzate con precisione negli interventi che mi hanno preceduto in questa discussione. Il passaggio, cioè, in cui i sentimenti populisti diventano una forma mentis chiusa, gli elementi costitutivi di una identità politica e di un senso di appartenenza a una famiglia culturale e politica.

Una malattia che non si curerà sino a quando le forze progressiste non riusciranno a svelare il depistaggio cognitivo del populismo (ad esempio Trump che cancella, osannato da Wall Street, le leggi di Obama per regolare i mercati finanziari, proteggendo quindi i massimi responsabili della crisi che ha travolto una gran parte di coloro che lo hanno votato !) e  a dimostrare di volere seriamente rispondere, nelle condizioni del mondo di oggi, alla domanda fondamentale che Karl Polanyi si era posto in La grande trasformazione (Einaudi, u.e 2010) nel 1944, riflettendo sulle origini di un’altra crisi e di un altro tipo di fascismo : come difendere la sostanza umana e naturale delle nostre società di fronte a poteri finanziari e tecnologici non controllabili e che vogliono assoggettare ogni forma di vita alle proprie esigenze?

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