In occasione del ciclo di incontri Di-segno Nero, indagine originale sulle destre radicali in Europa, pubblichiamo un’inchiesta inedita di Fabio Turco, curata da Lorenzo Bagnoli, in collaborazione con IrpiMedia.
Come ogni 11 novembre Rondo Dmowskiego, il centro nevralgico di Varsavia, si riempie di persone. Sin dal mattino affluiscono senza sosta intorno a un grande palco allestito per l’occasione. Ci sono quasi centomila persone, arrivano da tutte le parti del paese. È un profluvio di bandiere polacche, striscioni ed effigi religiose. Si celebra la festa dell’Indipendenza, che ricorda la ritrovata unità nazionale nel 1918, dopo 123 anni in cui la Polonia era sparita dalle carte geografiche, suddivisa tra l’Impero russo, Regno di Prussia e Monarchia Asburgica. Il viaggio alla scoperta della destra polacca non può cominciare che da qui, dalla sua esibizione più visibile e rumorosa.
L’11 novembre 2021 è stato particolare, essendo coinciso con i giorni più drammatici della crisi migratoria al confine con la Bielorussia. Migliaia di persone provenienti perlopiù dal Kurdistan iracheno, dalla Siria e dall’Afghanistan che cercavano di entrare in Europa sono state respinte coi cannoni ad acqua della guardia di frontiera polacca vicino al valico di Kuźnica, nel nord est del paese. La situazione aveva spaccato l’opinione pubblica. La tensione al confine si era inevitabilmente riflessa anche negli umori che attraversano la Marcia dell’Indipendenza.
Quel giorno in piazza c’era anche Juliusz, arrivato da Poznań insieme alla moglie e ai due figli adolescenti: «Stiamo vivendo una situazione particolare» racconta, «I nostri confini sono in pericolo e per il nostro paese è importante mostrare unità. La Polonia viene tormentata dall’Unione europea, con la regia della Germania. Vogliono farci fare quello che vogliono, ma noi vogliamo essere sovrani, non subalterni. Da un lato abbiamo l’Unione europea che impone sanzioni, da est i migranti attaccano le nostre frontiere».
Quello di Juliusz non è un sentimento isolato: la sindrome dell’assedio si riscontra palpabile nella piazza. A un certo punto vengono bruciate una bandiera della Germania e una fotografia di Donald Tusk, leader dell’opposizione liberale.
Destra di piazza e di governo
La marcia dell’Indipendenza è una manifestazione relativamente recente se si considera che la sua prima edizione si è tenuta nel 2009. Ha conosciuto un rapido e tumultuoso consenso, passando da essere un evento di poche centinaia di persone a manifestazione di richiamo internazionale. Negli anni insieme alla destra radicale polacca hanno sfilato gli italiani di Forza Nuova, gli spagnoli di Vox, gli ungheresi di Mi Hazánk Mozgalom, recentemente approdati all’Assemblea nazionale magiara. Durante i primi anni ci sono stati episodi di violenza, sassaiole e scontri con la polizia. Una prima svolta avviene nel 2015, quando il partito nazionalista e conservatore di Diritto e Giustizia (PiS) vince le elezioni parlamentari dopo sette anni di governo a trazione liberale.
Le istanze di Diritto e Giustizia e il radicalismo di quella piazza non coincidono, ma il leader del partito Jarosław Kaczyński capisce che può utilizzarla per rafforzare il proprio consenso. Nel 2018 in occasione del centenario dell’indipendenza il presidente polacco Andrzej Duda si trova a officiare le celebrazioni ufficiali a pochi metri dalle falangi del Campo Radicale Nazionale (ONR) una delle due anime dell’organizzazione. Sempre nel 2018 la presidenza dell’Associazione Marcia per l’Indipendenza viene assunta da Robert Bąkiewicz, fino a quel momento elemento di spicco di ONR, Bąkiewicz diventa uomo di riferimento per Diritto e Giustizia e negli ultimi anni la manifestazione si “ripulisce” dalle sue esibizioni più estreme. Allo stesso tempo ciò provoca una rottura con la sponda politica a cui prima Bąkiewicz apparteneva. Questo passaggio spiega molto delle dinamiche della destra polacca, assai meno compatta di quanto possa apparire dall’esterno.
La cosmologia dei nazionalismi polacchi, tra valori cristiani e conservatorismo
Quando Diritto e Giustizia vinse le elezioni parlamentari del 2015, Jarosław Kaczynski salutò la vittoria come l’avvento della Dobra Zmiana (Buon cambiamento), la rivoluzione conservatrice che avrebbe riscattato il paese dal tradimento avvenuto durante la transizione democratica. In questi anni, i governi guidati prima da Beata Szydło e poi da Mateusz Morawiecki, sono stati caratterizzati da riforme invasive, specialmente in materia di giustizia, che hanno portato la Polonia a una lungo braccio di ferro con Bruxelles. In campo economico invece si è puntato su alcune politiche di welfare che hanno consentito di risollevare un po’ il tenore di vita delle fasce meno agiate della popolazione.
A questa destra di governo, che potremmo definire sociale e populista, fa fronte in parlamento, sui banchi dell’opposizione, il partito nazionalista e turboliberista di Konfederacja. Nato nel 2018, come una coalizione di due partiti, KORWiN e Movimento Nazionale (Ruch Narodowy) ha via via raccolto per strada altri elementi della galassia radicale. Alle parlamentari del 2019 ha incassato il 6,8% dei voti e nei sondaggi i suoi consensi oscillano in una forbice tra il 5 e il 10%. Ferocemente critico nei confronti di Diritto e Giustizia, specialmente per le sue politiche in materia economica e per la gestione della crisi pandemica, nell’ultimo periodo sta vedendo un’erosione dei consensi a causa della sua presa di posizione sulla guerra in Ucraina. Konfederacja è stato l’unico partito dell’arco parlamentare a schierarsi contro l’accoglienza ai rifugiati ucraini e alcuni suoi esponenti si sono spinti in vere e proprie dichiarazioni filorusse. Altri movimenti di una certa rilevanza ma fuori dal parlamento sono Młodzież Wszechpolska (Gioventù di tutta la Polonia), che insieme a ONR organizza la Marcia dell’Indipendenza, e Niklot un’associazione che coniuga ultranazionalismo e neopaganesimo.
Tra Diritto e Giustizia e le frange più radicali ci sono alcuni punti di contatto. Il primo è il tipo di linguaggio utilizzato, volto alla demonizzazione dell’avversario.
I temi politici sono grosso modo gli stessi: la guerra alla cosiddetta ideologia LGBT, la posizione sull’aborto, un marcato antieuropeismo, la chiusura all’immigrazione specialmente in chiave antislamica.
Tuttavia il vero collante che accomuna tutte queste formazioni (con l’eccezione di Niklot) è un sentimento religioso molto forte, pervasivo, che permea gran parte delle decisioni e delle posizioni politiche. La Chiesa polacca rimane un attore importante sulla scena politica del paese, nonostante la Polonia stia affrontando un rapido processo di secolarizzazione.
Protagonista determinante nella sequenza di eventi che hanno portato alla caduta del comunismo, negli ultimi anni l’Episcopato polacco ha svolto il ruolo di bastione di Diritto e Giustizia nelle campagne. In un contesto fortemente polarizzato tra città progressiste e aree rurali più legate alla tradizione cattolica, sono sono stati molti i casi in cui i preti hanno fatto campagna elettorale dall’altare. Il bacino di voti proveniente della campagna è stato fondamentale per le affermazioni alle elezioni del 2015 e del 2019. La moneta di scambio è stata l’approvazione di alcune leggi che la Chiesa polacca chiedeva da tempo, come la chiusura domenicale dei negozi. Anche la sentenza del Tribunale Costituzionale sulla legge sull’aborto è andata incontro a questo tipo di richieste. Eppure Il potere della Chiesa è in costante erosione: oltre alla crisi di fedeli, c’è un forte calo nelle vocazioni, e gli scandali legati alla pedofilia nel clero hanno creato un danno d’immagine non indifferente. A compensare questo declino hanno fatto la loro comparsa dei nuovi soggetti con forti capacità di lobbying: associazioni pro life e think tank di cui la più strutturata e potente è senza dubbio Ordo Iuris.
Civico vs etnico, nazionalismi nati nel Novecento
Eppure nonostante questi punti di contatto, all’interno della destra polacca esistono differenze profonde, che hanno radici lontane. Lo storico Dariusz Stola, in un’intervista rilasciata qualche mese fa a Rosita Rijtano di Lavialibera, ha avuto modo di affermare quanto segue:
«In Polonia tutti i partiti sono a loro modo nazionalisti, perfino quelli che oggi stanno all’opposizione. L’origine del sentimento nazionalista è da ricercare nel periodo della spartizione della Polonia quando si creò un movimento di polacchi etnici, una nazione senza stato. La matrice etnoreligiosa si è fatta più marcata a partire dalla rivoluzione del 1905».
Il periodo interbellico fu caratterizzato da due diverse correnti di pensiero sulla direzione da dare a un paese giovane e dai confini geografici ancora incerti. Due forme di nazionalismo: il primo civico, il secondo etnico. Il maresciallo Józef Piłsudski, padre fondatore della Polonia indipendente, capo di stato tra il 1918 e 1922 e dittatore de facto dal 1926 al 1935, aveva in mente uno Stato che raccogliesse l’eredità dell’antica Confederazione Polacco Lituana, e che si ponesse dunque a guida di una nuova entità dal Mar Nero al Mar Baltico, che si interponesse tra il mondo russo e quello germanico. Questo progetto aveva un nome: Intermarium in latino, Międzymorze in polacco. La Polonia doveva guardare dunque al di fuori dei propri confini, restando al suo interno un paese multietnico. È il cosiddetto nazionalismo civico.
Il nazionalismo etnico segue al contrario il progetto di una Polonia unita, cattolica ed etnicamente coesa. Le varie minoranze che componevano il paese (ebrei, ucraini, tedeschi, russi) dovevano porsi secondo questa teoria in posizione subalterna ai veri polacchi. Leader politico dei partiti che si rifacevano al nazionalismo etnico è stato Roman Dmowski, avversario politico di Piłsudski negli anni Venti e Trenta.
Venendo al giorno d’oggi la contrapposizione tra PiS e Konfederacja può essere ricondotta proprio a questa antica frattura. Il giornalista di Krytyka Polityczna Przemysław Witkowski, esperto nelle questioni della destra polacca, evidenzia queste differenze: «Diritto e Giustizia è un partito filo americano, strettamente connesso al partito repubblicano, in particolare l’area trumpiana, ed ha una forte connotazione anti russa, Konfederacja invece si caratterizza per una certa componente antisemita e filo russa».
«Ci sono radici storiche e geopolitiche dietro queste diverse visioni – spiega Witkowski – uno dei partiti che hanno dato vita a Konfederacja è il Movimento Nazionale, che a sua volta si richiama al partito Nazional democratico di Roman Dmowski. Dmowski sosteneva che il vero pericolo per la sovranità polacca fossero i tedeschi, forti di uno stato avanzato dal punto di vista tecnologico ed economico. Per loro sarebbe stato facile germanizzare i polacchi. Coltivando invece rapporti con la Russia, non si sarebbe corso nessun rischio di russificazione, in quanto la Polonia era un paese più avanzato».
Dmowski sosteneva anche che la Germania cooperasse con l’Ucraina per creare una mitteleuropa a influenza tedesca: «Per questo – aggiunge Witkowski – oggi Konfederacja ha una connotazione antiucraina».
Diritto e Giustizia ha invece origine nell’altro campo, quello di Piłsudski, che percepiva la Russia come una minaccia mortale per l’indipendenza polacca. Anche il rapporto nei confronti della Germania è diverso: «Per il partito di Kaczynski la Germania non è un nemico, ma un competitor, a cui cerca di sottrarre influenza nell’area dell’Europa orientale», afferma il giornalista di Krytyka Polityczna.
Cerniera tra Oriente e Occidente
Per la destra radicale, la Polonia si contrappone agli imperi dell’est e dell’ovest: «La Russia – spiega Tomasz Szczepański, fondatore di Niklot, uno dei movimenti più estremi di questa galassia – è una minaccia permanente perché la sua cultura genera imperialismo. L’imperialismo russo non è di tipo politico come lo erano quelli francese o britannico. In Russia nonostante l’imperialismo non abbia portato nessun beneficio è continuato, dal momento che sia la Russia zarista, sia quella comunista hanno una cultura imperiale. Nonostante la fine del comunismo la Russia ha continuato a lottare per essere una potenza mondiale. Non cambierà, a meno che i russi non rifiutino le fondamenta della propria civiltà». Sul fronte occidentale, sostiene Szczepański, «dobbiamo fare i conti con l’imperialismo tedesco che sta cercando di recuperare dalla sconfitta della seconda guerra mondiale, controllando l’Unione europea. Si tratta di un imperialismo più leggero ma comunque pericoloso, dal momento che promuove l’ideologia demoliberale (democratica e liberale, ndr), che distrugge le fondamenta della società occidentale».
Il Międzymorze frapposto tra due superpotenze, la teoria politica nata con Józef Piłsudski, non si è mai realizzato per varie ragioni, prima tra tutte la mancanza di volontà di cedere sovranità da parte di entità nazionali come la Cecoslovacchia e l’Ungheria. Archiviato durante il comunismo, il progetto è riapparso con una forma diversa con il gruppo Visegrád, il patto di collaborazione politica ed economica che unisce Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia dal 1991. Si è visto alla prova della storia, però, come interessi divergenti mettano in crisi alleanze ritenute inscalfibili sulla carta.
La costruzione di un’autonomia dalle sfere d’influenza a oriente e a occidente si persegue ancora in Polonia. L’anno scorso, per esempio, è stata inaugurata un’università privata, il Collegium Intermarium, che si propone di riunire una nuova élite conservatrice di accademici nello spazio tra mar Baltico, mar Nero e mare Adriatico. Alla base, le comuni radici cristiane e gli stessi valori, al di là delle specificità dei singoli paesi. Nella mission dell’istituto c’è la volontà di tornare allo sviluppo umano integrale in contrapposizione a un’educazione unidimensionale, di massa e diffusa.
Evidente la critica al sistema di istruzione occidentale.
La guerra in Ucraina sta offrendo una nuova prospettiva alla visione della Polonia come Stato-cerniera. Lo scontro frontale con la Russia e il supporto quasi incondizionato offerto all’Ucraina hanno permesso a Varsavia di riacquistare un ruolo centrale nella geopolitica regionale. Ai tempi dell’Euromaidan, la stagione di proteste a cavallo tra 2013 e 2014 che ha provocato la cacciata del presidente dell’Ucraina Viktor Yanukovich, l’allora ministro degli Esteri polacco Radosław Sikorski, si era recato più volte a Kiev insieme all’omologo francese Laurent Fabius e quello tedesco Frank-Walter Steinmeier per trovare una situazione politica alla crisi. L’avvento di Diritto e Giustizia ha poi fatto tramontare il prestigio politico polacco e dal 2015 in poi le missioni europee per risolvere le controversie tra Russia e Ucraina hanno escluso Varsavia.
La centralità di un tempo sembra essere stata ritrovata con il conflitto di oggi. A inizio maggio Enrico Letta ha incluso la Polonia nel novero dei grandi paesi europei che dovrebbero recarsi a Kiev e poi a Mosca per trovare una soluzione diplomatica al conflitto. Un’affermazione che oltre a suonare come una riabilitazione, ricolloca la Polonia nel suo ruolo di Paese cerniera tra Oriente e Occidente.