In Italia, il dibattito sullo Ius Soli non riguarda solo le seconde generazioni, ma implica affrontare altri aspetti legati alle politiche migratorie – emigrazione, immigrazione, migrazioni interne – che vanno affrontati in maniera strutturale, uscendo dall’ottica emergenziale. Michele Colucci, ricercatore presso l’Istituto di studi sulle società del Mediterraneo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, presenta le sue idee in termini di riforma della cittadinanza, con un approfondimento sulle radici storiche dell’immigrazione e gli strumenti per imparare a conviverci.
La proposta di legge, rinviata a questo a autunno, è di introdurre uno ius soli temperato ed uno ius culturae. Lei è d’accordo con questa riforma?
Sono d’accordo con le attuali revisioni proposte in Parlamento alla legge sulla cittadinanza, si tratta però di semplici elementi di buon senso che andrebbero a modificare una legge varata nel 1992, che contiene una tale quantità di punti critici da meritare un complessivo e più massiccio intervento. Ricordo, ad esempio, che è la stessa legge (n. 91/1992) ad aver allargato a dismisura la possibilità di accedere alla cittadinanza italiana per i discendenti degli emigranti italiani. Restando nello specifico delle novità sulla cittadinanza, le attuali proposte discusse in Parlamento (nella parte non riguardante la conclusione positiva dei cicli scolastici) continuano ad ancorare al permesso di soggiorno dei genitori la possibilità per i minorenni di richiedere la cittadinanza italiana. In un panorama legislativo paralizzato dalle ossessioni securitarie e razziste, dobbiamo ricordare che le normative in vigore sui permessi di soggiorno sono ancora figlie della legge Bossi-Fini del 2002, che a sua volta restringeva i criteri della legge Turco-Napolitano del 1998.
Migranti italiani a Trieste, anni ’50
Quindi la riforma da sola non è sufficiente?
Credo sia riduttivo e miope mettere mano alla cittadinanza senza allo stesso tempo ripensare l’impianto restrittivo e anacronistico della politica migratoria italiana. Ho la sensazione di una pericolosa partita di giro giocata sulla pelle delle persone. Negli stessi giorni in cui viene discussa l’estensione della cittadinanza, il governo procede con il decreto Minniti-Orlando, che riduce i diritti per i richiedenti asilo (a partire dall’abolizione dell’appello per le domande respinte dalle Commissioni territoriali), e reintroduce una tassa iniqua e discriminatoria come quella richiesta a coloro che devono rinnovare il permesso di soggiorno: grandi e piccoli interventi destinati a rendere la vita sempre più complicata ai cittadini stranieri residenti in Italia. Come ha notato recentemente Ferruccio Pastore, l’inerzia delle politiche migratorie italiane continua a produrre irregolarità ed elusione e i primi a farne le spese sono gli immigrati stessi. Per approfondire i temi della cittadinanza e delle politiche migratorie consiglio la lettura di 2 volumi non recenti ma ancora molto utili: Fardelli d’Italia? Conseguenze nazionali e transnazionali delle politiche di cittadinanza italiane (di Guido Tintori, Carocci 2009) e Dobbiamo temere le migrazioni? (di Ferruccio Pastore, Laterza, 2004).
Nel libro che ha scritto insieme a Matteo Sanfilippo Le migrazioni. Un’introduzione storica illustra come le ultime trasformazioni sociali ed economiche abbiano reso paesi come l’Italia da terre d’emigrazione a centri di attrazione per le nuove migrazioni. Come è stato affrontato questo cambiamento? Qual è la situazione odierna?
L’Italia si trova oggi a vivere una realtà in cui emigrazione, immigrazione e migrazioni interne si affiancano e si compenetrano. Ma questa non è una novità, perché è ormai da quarant’anni che questa pluralità dei fenomeni migratori si manifesta in modo così palese e la dimensione strutturale delle migrazioni rappresenta un tratto caratterizzante addirittura fin dagli anni post-unitari. Le classi dirigenti, se si eccettuano alcune eccezioni, hanno compreso con estremo ritardo tale dimensione strutturale e hanno continuato sistematicamente a operare in modo parziale ed emergenziale. Ci sono vicende ormai note che saltano agli occhi: l’Italia repubblicana abolisce solo nel 1961 le norme antiurbanesimo volute dal fascismo, ben 16 anni dopo la liberazione. Per tutti gli anni cinquanta gli italiani che volevano spostarsi e cambiare residenza da un comune all’altro dovevano dimostrare di avere un contratto di lavoro e questa norma produceva clandestinità e irregolarità di massa. Su questo punto rinvio al volume di Stefano Gallo Senza attraversare le frontiere (Laterza 2012).
In che modo la storia d’emigrazione italiana ha influito sul nostro diritto d’immigrazione?
La citata legge sulla cittadinanza del 1992 è emblematica. Approvata col consenso unanime delle forze politiche (dall’estrema destra alla sinistra radicale), la legge intende “risarcire” l’universo dell’emigrazione italiana nel mondo dopo decenni di abbandono da parte delle istituzioni, dando la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana a nipoti e pronipoti di una emigrazione che nella sua fase di massa era ormai finita da tempo. Il legislatore, allo stesso tempo, chiude letteralmente gli occhi di fronte alla realtà ormai diffusa e palpabile dell’immigrazione straniera, definendo un percorso rigidissimo e molto ristretto per le seconde generazioni e il loro accesso alla cittadinanza, oggi criticato da più parti ma all’epoca sbandierato come una grande conquista civile.
Quanto aiuta a interpretare la realtà di oggi avere un quadro storico delle politiche migratorie?
Un approccio storico alle politiche migratorie può essere utile per comprendere questi ritardi. Per chiarezza faccio rapidamente altri 2 esempi. La prima legge sull’immigrazione è del 1986, quando il fenomeno era già presente e radicato sul territorio e per lungo tempo venne regolamentato da una semplice circolare del Ministero del lavoro, risalente addirittura al 1963. Solo nel 1990 con la legge Martelli l’Italia abolisce la cosiddetta “riserva geografica” per i richiedenti asilo, che fino a quel momento a parte pochissime eccezioni erano riconosciuti come tali solo se provenivano dai paesi socialisti a est della cortina di ferro. Per approfondire la storia delle politiche migratorie rimando al volume di Luca Einaudi, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità a oggi (Laterza, 2007).
Qual è un buon metodo per studiare l’impatto delle migrazioni nelle nostre società?
Ci sono molti progetti di ricerca e molte ricercatrici e ricercatori competenti che lavorano quotidianamente per restituire in modo chiaro la dinamica dei flussi migratori. A fianco alla ricerca è molto importante la disponibilità a fare inchiesta, la possibilità di comunicare in modo accurato i risultati e la necessità di costruire uno spazio pubblico di elaborazione culturale e politica sulle migrazioni capace di contenere visioni di lungo periodo. Attualmente lo scenario pubblico è dominato da approcci egualmente carenti sul piano interpretativo, quali quello razzista-securitario o quello pietistico-vittimario. Oggi abbiamo la possibilità di ottenere molte informazioni quantitative sui flussi migratori e la loro storia, ci sono molte fonti statistiche disponibili on-line, gli stessi archivi pubblici e privati – per chi ha una formazione storica – hanno valorizzato le rispettive risorse in campo migratorio.
Quali sono secondo lei le priorità del mondo della ricerca su questo tema?
Ciò di cui a mio avviso c’è più bisogno sono le idee, le chiavi di lettura, le opzioni interpretative senza le quali la ricerca rischia di mantenere un approccio puramente compilativo. Si è inoltre creata una frattura pericolosa tra i ricercatori, gli “addetti ai lavori” e l’opinione pubblica, frattura di cui sono responsabili anche gli stessi ricercatori, che per molto tempo hanno preferito vivere in modo autoreferenziale il proprio lavoro. Questa frattura va ricomposta, costruendo innanzitutto un approccio capace di guardare alle migrazioni non in modo specialistico e settoriale ma con uno sguardo convergente. Penso ad esempio alle migrazioni interne all’Italia, un fenomeno che riguarda insieme italiani e stranieri, che si trovano a condividere percorsi, conflitti ed esperienze comuni e che ci costringe a ripensare ancora una volta le categorie e i linguaggi con cui descrivere e raccontare i fenomeni migratori.