Università degli Studi di Pavia

Un «sistema politico» riguarda i ruoli istituzionali e chi li detiene, ma anche le attitudini e i valori che informano o ispirano i comportamenti delle autorità politiche, delle classi dirigenti e, naturalmente, dell’intera comunità politica di un paese.

Sono emerse, proprio nella crisi, alcune caratteristiche profonde della comunità politica italiana. Una, in particolare, merita l’incipit di questa breve analisi. Uno strumento collettivo – che oserei definire autonomo – di interpretazione della realtà (tragica) è una spiccata attitudine teatrale. Ironia, autocommiserazione, fatalismo e ottimismo sono diventati materia di esibizione per menestrelli, comici, arlecchini improvvisati, che hanno svolto un ruolo sociale, offrendo una lettura popolare degli eventi, in un tam-tam contemporaneo, tra circuito mediatico e balconi.
Un altro elemento profondo – e sostanzialmente costituzionale – che ha “saldato le fila” comunitarie è un umanesimo solidale (anche spirituale) di matrice cristiana e cattolica.

Naturalmente non sono mancate le classiche attitudini individualistiche (peraltro, anche la teatralità, prima di diventare bene collettivo, è creatività individuale). Spiccano i vari tentativi e sotterfugi per sottrarsi alle regole – ordinanze -, tra cui gli esodi che precedono le restrizioni e gli sforzi quotidiani di scavallarle. Ma – nel complesso – queste attitudini, così radicate, non sono “deflagrate”, decostruendo il tessuto sociale, pur drammaticamente teso dalla paura diffusa. Il rischio di “deflagrazione” ha fatto solo capolino. Sono rientrati subito gli episodi sociali apparentemente più rischiosi (dalle rivolte nelle carceri, alle rivolte dei lavoratori, a quelle dei consumatori senza reddito, alle fughe dalle zone più colpite). Nemmeno le sconcertanti manchevolezze nel fornire i presidi di protezione agli operatori sanitari hanno generato reazioni di sottrazione di questi alla propria funzione; la qual cosa è pienamente spiegabile solo in termini di deontologia professionale o, più propriamente, di interpretazione sociale del proprio ruolo.

Nonostante la frammentazione (su cui torno dopo) e le carenze – a tratti drammatiche –, il sistema sanitario (ancora universalistico) e gli operatori sanitari sono diventati il sistema e la categoria sociale cui si è rivolta tutta la comunità politica. Ciò è avvenuto sia per la natura della crisi, sia per il sacrificio in lavoro e vite umane, sia per l’assenza di altra forma di autorità frapposta.

Come noto, il sistema politico italiano nasce e si sviluppa con fragili contrafforti che legano la politica e la società. La classe dirigente italiana è effimera fin dalle origini e attraversa ora nuovi processi di erosione. Non stupisce, quindi, che le organizzazioni intermedie siano apparse così deboli e assai poco visibili. I primi a fare capolino – facendo eccezione – sono stati la Chiesa e il suo tessuto parrocchiale e poi un variegato mondo culturale e pedagogico (il primo intervento culturale pubblico – manzoniano – è di un preside). La reazione delle Università come istituzione è stata veloce nel riconoscere il rischio (e disporre la “chiusura” degli atenei), per poi concentrarsi sui due impegni più pressanti: la mobilitazione scientifico-sanitaria e quella per la didattica a distanza. Il sistema accademico sembra aver avuto riflessi rapidi (più della politica) nel riconoscere un pericolo incombente, per poi cristallizzarsi su problemi di efficacia nell’erogazione di quei due servizi. Solo lentamente, in un secondo tempo, ha dispiegato qualche altra azione politico-sociale, ad esempio nelle relazioni europee. Tra le concause di questo scarso protagonismo non c’è solo la natura riflessiva del mondo scientifico. Il sistema universitario, ingolfato dall’espletamento di vecchie e nuove incombenze, è frammentato, educato alla competizione individuale, settoriale e tra atenei. Anche per questo ha faticato ad assumere una attitudine cooperativa (anche in campo medico).

D’altro canto, l’emergenza ha aumentato la centralizzazione dei processi nei suoi vertici, in condizioni di distanziamento sociale, rafforzando una lettura collettiva stereotipata, incentrata sulle due direttrici predominanti (sanitaria e di teledidattica). Il mondo imprenditoriale e sindacale sono apparsi squadernati, promotori di appelli incongrui, contraddittori, rischiosi, oltre che scarsamente visibili, con poche eccezioni.
La cosiddetta “fase 2” si stagliava all’orizzonte in modo assai nebuloso e preoccupante, se osservata giudicando gli interventi di Confindustria, delle associazioni dei mestieri e dei lavoratori. In questo quadro di autorità sociali incapaci di rendersi credibili, catturare un solido sostegno sociale e renderlo politicamente influente, le autorità politiche sono risultate più impietosamente sole con le loro responsabilità morali di gestione della crisi.

Palesemente esse si sono «coperte» in modo quasi totale con una legittimazione proveniente dalle autorità del sistema di protezione civile e sanitario nazionale. Ne viene che la statura professionale, ma anche l’interpretazione sociale personale dei detentori di questi incarichi, in posizioni apicali (si pensi alle comunicazioni di Locatelli), abbiano assunto un ruolo politico rilevante. Cioè, diventavano policy-maker e raccoglitori di sostegno per il sistema politico.
Nonostante questa comune «copertura di legittimazione» si è innescato anche un processo di delegittimazione reciproca da parte dei principali centri istituzionali di potere politico: la Presidenza del Consiglio dei ministri e i «governatori» regionali.

L’emergenza sanitaria ha reso cristallino lo stadio, piuttosto avanzato, e certamente
conflittuale, di un assetto quasi-federale.

Anche la competizione partitica (che sostituisce le proprie sedi e le piazze coi social e sposta lì i suoi principali canali comunicativi) è stata ricondotta ad una contrapposizione centro-periferia (che è poi l’issue più profonda della storia del sistema politico). In questo quadro istituzionale risulta singolarmente debole il ruolo del Presidente della Repubblica. Continuamente chiamato in causa dalle esigenze sistemiche, Sergio Mattarella non è mai davvero interprete politico autonomo della situazione politica e sociale; il che si discosta in modo consistente dai casi della storia istituzionale che vedono prima il re e poi il presidente della Repubblica protagonisti nelle principali crisi del sistema.

Ma, a ben guardare, il comportamento di Mattarella è coerente con la situazione e con il quadro politico. Mattarella protegge istituzioni deboli, legittimando l’espansione del ruolo del presidente del Consiglio che la crisi sanitaria ha prodotto e resa necessaria. L’atteggiamento “dimesso” del capo dello Stato in carica non è solo un portato della sua personalità (che pure, in parte, contribuisce all’interpretazione del ruolo) e della storia delle personalità dei detentori di cariche politiche apicali italiani (una parte dei quali dissimula il potere che esercita). La sua attitudine è anche una sorta di rassicurazione istituzionale: la dilatazione necessaria del capo del governo – sembra avvertire il capo dello Stato attraverso i suoi timidi e minimali discorsi pubblici – è sostenuta dal suo ruolo, che appositamente si contrae, nella prevalente funzione di legittimazione dell’altra carica di vertice, più debole della sua.

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