Proponiamo qui un estratto dal volume Co-Economy. Un’analisi delle forme socio-economiche emergenti a cura di Davide Lampugnani. La pubblicazione è disponibile nelle Librerie Feltrinelli e in tutti gli store online.
Cosa accadrebbe se la proprietà di Uber fosse distribuita attraverso i suoi autisti? Come cambierebbe la piattaforma se la sua gestione avvenisse democraticamente mediante i suoi lavoratori freelance? Sono questi gli interrogativi che qualche anno fa hanno sostenuto la nascita del movimento del platform cooperativism[1]. Il punto di partenza è naturalmente la sharing economy e i suoi processi di disintermediazione e di re-intermediazione di interi mercati di beni e servizi. Se, infatti, da una parte l’avvento di piattaforme come Uber e Airbnb ha certamente consentito di aprire nuovi spazi di scambio e condivisione tra pari, dando nuovo valore a competenze professionali, beni, servizi, risorse altrimenti sottoutilizzati, dall’altra parte ha altresì comportato l’emergere di una serie di problemi riguardanti la tutela, la sicurezza e l’equità del mondo del lavoro che sembravano ormai essere un ricordo del passato. Secondo osservatori come Trebor Scholtz e Nathan Schneider, veri e propri ideatori del platform cooperativism, il mondo della sharing economy ha ceduto ad un compromesso che ha lentamente snaturato il suo potenziale iniziale: grandi finanziamenti in cambio della proprietà e della governance delle piattaforme. In particolare, l’ingresso crescente di venture capital per sostenere l’espansione dei servizi di sharing ha portato a concentrare la proprietà e la governance dei servizi nelle mani di pochi shareholder, i quali, interessati a ottenere profitti nel breve periodo, hanno esternalizzato tutta una serie di costi e di criticità sui lavoratori freelance della piattaforma accaparrandosi profitti crescenti. Questo modello è stato definito “platform capitalism”[2], in quanto basato su forme di estrazione di valore centrate sull’uso di piattaforme digitali.
Di conseguenza, ciò che caratterizza il movimento del platform cooperativism è proprio il tentativo di correggere questa deriva assunta da una parte della sharing economy. In particolare, secondo un numero crescente di attivisti e ricercatori è il modello cooperativo a rappresentare la reale alternativa al modello capitalista. Se infatti, da una parte, la sharing economy ha incredibilmente aumentato la capacità di collaborare condividendo mezzi sotto forma di beni e servizi, dall’altra parte, ha dimenticato la centralità di condividere proprietà e governance come caratteristiche fondamentali per una maggior democraticità dei processi di collaborazione e soprattutto per una più equa ridistribuzione del valore creato. Il modello cooperativo, infatti, da sempre fa della capacità di condividere sia i mezzi che i fini dell’agire imprenditoriale il proprio punto di forza, tuttavia, come già detto a proposito delle cooperative platform [3], fatica a reggere il passo degli ampliamenti di scala organizzativa e di inserimento nella competizione di mercato. Per questo motivo, il platform cooperativism nasce come il tentativo di trasformare in senso cooperativo quelle piattaforme di sharing economy che rifiutano il modello capitalista come unica possibilità di business.
Processi
Secondo osservatori come Scholtz e Schneider, il movimento del platform cooperativism poggia su due processi fondamentali:
- In primo luogo si tratta di mantenere, quale centro del modello di business, la tecnologia della piattaforma digitale. Questa rappresenta il principale fattore di innovazione legato all’avvento della sharing economy. La piattaforma consente infatti allo stesso tempo un abbattimento dei costi di intermediazione e un aumento di scala degli scambi possibili. Servizi come Uber o Airbnb fondano la propria capacità di generare valore proprio sugli algoritmi che consentono di gestire gli scambi tra pari in tempo reale e su distanze geografiche che coprono l’intero pianeta. Allo stesso modo, i sistemi di feedback e di rating presenti consentono di introdurre dei meccanismi di regolazione capaci in parte di sopperire alla mancanza di fiducia tra estranei.
- Allo stesso tempo, tuttavia, il movimento del platform cooperativism auspica un cambiamento dei modelli di proprietà e di governance delle piattaforme di condivisione e di scambio. In particolare, proprietà e governance devono essere ridefinite in senso cooperativo, consentendo non solo la produzione di valore attraverso la moltiplicazione degli scambi tra pari ma anche la ridistribuzione di questo stesso valore proprio a quei pari che lo hanno generato. Concentrando proprietà e governance nelle mani di pochi proprietari o azionisti le imprese del platform capitalism hanno trasformato progressivamente i pari in un esercito di lavoratori freelance privi di diritti e di tutele sul lavoro. Per questo motivo, è necessario ripensare la sharing economy in senso cooperativo, facendo si che gli stessi lavoratori freelance siano proprietari della piattaforma e possano partecipare alla sua gestione. Detto in poche parole, è necessario condividere non solo il codice della piattaforma, cioè il mezzo attraverso cui si genera valore, ma anche i fini e, di conseguenza, le modalità attraverso cui si genera e si ridistribuisce questo valore.
Combinando la struttura di piattaforma con un modello di business cooperativo, il movimento del platform cooperativism propone quindi non tanto una ridefinizione del mondo cooperativo secondo i principi della sharing economy, come nel caso delle cooperative platform[4], quanto una ridefinizione del mondo “Silicon Valley” in senso meno capitalistico e più cooperativo. Non si tratta, quindi, tanto di trasformare le cooperative esistenti in piattaforme digitali, quanto di progettare e costruire ex novo piattaforme digitali che incorporino o siano gestibili in modo cooperativo. In questo senso, frequenti sono i riferimenti all’interno del platform cooperativism a tecnologie emergenti nell’ambito della proprietà e della governance digitale. Software come Loomio[5] o Democracy OS[6] sono identificati come possibili strumenti attraverso cui sviluppare forme di governance democratica e partecipata pur coinvolgendo numeri molto ampi di pari e in assenza di compresenza fisica. Allo stesso modo, l’utilizzo della tecnologia blockchain, alla base della cryptovaluta bitcoin[7], è identificato come un possibile punto di forza per la realizzazione di forme di proprietà distribuita e trasparente.
Naturalmente il modello del platform cooperativism non è esente da criticità e fragilità. Tra i più acuti osservatori di questo fenomeno emergente, Guido Smorto ha recentemente indicato alcuni snodi chiave che dovranno essere affrontati dal nascente movimento[8]. In primo luogo la capacità di garantire dei servizi affidabili pur senza la presenza di lavoratori dipendenti, cioè appoggiandosi solamente al contributo volontario dei peer esterni all’impresa. In secondo luogo, la capacità di mantenersi sostenibile dal punto di vista economico. Essendo infatti la stragrande maggioranza dei servizi di sharing basati su meccanismi on demand, questi risentono fortemente delle variazioni della domanda. La differenza tra platform capitalism e platform cooperativism qui è evidente: mentre il primo modello esternalizza questa incertezza sui lavoratori freelance, riducendo o annullando le forme di tutela, il secondo ha la necessità di prendere in considerazione le esigenze dei lavoratori-proprietari e, di conseguenza, di internalizzare questi fattori di incertezza. Da ultimo, Smorto sottolinea la possibile difficoltà da parte delle imprese del platform cooperativism di entrare in un mercato che è già stato ampiamente colonizzato da colossi come Uber e Airbnb che possono contare su ingenti finanziamenti e, soprattutto, su crescenti effetti di esternalità di rete.
[1] T. Scholtz, Platform Cooperativism vs the Sharing Economy, in: Medium, 5 december 2014; N. Schneider, Owning is the New Sharing, in: Shareable, 21 december 2014.
[2] N. Srnicek, Platform Capitalism, Polity Press, Cambridge, UK 2016.
[3] Si veda il paragrafo 4.3.
[4] Vedi paragrafo 4.3.
[7] Si veda l’analisi nella parte seconda.
[8] G. Smorto, Il Mago di Oz e il Platform Cooperativism, in: CheFare, 17 marzo 2016.