Fate questo esperimento: andate per strada e chiedete a bruciapelo a qualche passante chi siano i responsabili della strage di piazza Fontana. Otto persone su dieci – sempre ammettendo che sappiano o si ricordino di questo evento – vi risponderanno che sono state le Brigate Rosse – che nel 1969 non esistevano ancora. Noi questo esperimento l’abbiamo fatto nel 2009 e oggi a cinquant’anni dalla strage, come associazione di ricerca e comunicazione storica, ci siamo chiesti cosa rimanga quindi di quell’evento nell’immaginario pubblico.
A tutte le domande principali – “Chi sono i colpevoli? Chi sono i mandanti? Quali connivenze? Quale relazione tra verità storica e verità giudiziaria?” – abbiamo le risposte, che vanno a smentire la retorica che include il 12 dicembre 1969 fra i “misteri d’Italia”, strategia di marketing (il finale aperto è sempre più affascinante) o cortina di fumo dietro a cui è possibile invece stabilire una verità storica molto specifica. Ciò che oggi sappiamo per certo è che su piazza Fontana e sulla strategia della tensione si è studiato e scritto moltissimo. Benché ad ogni anniversario importante – e al cinquantesimo più che mai – vengano pubblicati titoli che ripercorrono i fatti e aggiungono nuovi tasselli alla ricostruzione storica, ciò che manca realmente è l’ingresso di questi temi nel mainstream, attraverso una divulgazione della storia di piazza Fontana che sia una grande sintesi, in grado di inserire questo evento nelle sue molte cornici. È anche vero che probabilmente questo senso di incompletezza è stato viziato da risultati di decenni di inchieste giudiziarie, tentativi di colpo di Stato e processi per le stragi, che si sono conclusi con la mancata condanna dei colpevoli, fatta eccezione per tre casi (Peteano, questura di Milano e, in tempi più recenti, piazza della Loggia) senza comunque parlare dei mandanti.
Tutto ciò ha determinato un disallineamento tra verità storica e verità giudiziaria e ha legittimato la nascita e il consolidamento di un senso comune che potremmo definire “confuso”. Perché è accaduto questo? Le ragioni sono molte e per quanto non esistano risposte semplici a domande complesse, potremmo provare a riassumerle così:
- Il ruolo dei mezzi di informazione – in particolare della grande stampa d’opinione -, che nella vicenda di piazza Fontana hanno rivestito un ruolo chiave fin dalle ore immediatamente successive alla strage, è il primo elemento che ha contribuito a far scivolare la narrazione verso la confusione: l’insistenza sulla “pista anarchica”, la sovraesposizione mediatica di Pinelli e Valpreda e la conseguente debole smentita, il grande silenzio sulle altre piste di indagine e parallelamente la quasi totale assenza di inchieste sulle grandi testate nazionali, dovute alla scarsa volontà di prendere una posizione esplicita per non esporsi a critiche; queste e molte altre sono le criticità ascrivibili al settore dell’informazione, così cruciale nella genesi del discorso pubblico. Entro questa cornice si colloca la “difesa dei colpevoli”, ossia la contronarrazione dell’estrema destra, che proporrà fin da subito una propria versione dei fatti dominata da retoriche vittimiste, depistaggi e dalla accusa a tutta la classe politica della Prima Repubblica (definita come “partitocrazia” o “consociativismo partitocratico”) di aver coperto la reale “centrale sovversiva”, facente capo alla sinistra (da Feltrinelli agli anarchici, passando per PCI e BR); una versione che alla lunga è permeata nel senso comune.
- Nel frattempo il mondo del cinema e dello spettacolo ha fatto da cassa di risonanza, nel bene e nel male. Se da un lato, soprattutto negli anni più vicini alla strage, è stato promotore di opere di denuncia e di controinformazione che spingevano verso la ricerca di verità e giustizia, dall’altro, in tempi più recenti, ha alimentato la tendenza alla de-responsabilizzazione, inserendo la strategia della tensione nell’alveo degli “anni oscuri” della Repubblica italiana.
- Infine, come non considerare l’ambito scolastico, che dovrebbe veicolare la verità storica con chiarezza e dove invece troviamo ancora troppi titoli manualistici che riportano paragrafi introdotti da espressioni ipotetico-dubitative come “molti sostennero che”, dominati da una generica condanna morale all’uso della violenza come strumento di lotta politica e da un appiattimento delle narrazioni nella retorica degli “opposti estremismi”.
Su questo evento spartiacque si possono misurare le politiche dell’oblio che hanno spinto a escludere la Guerra Fredda dal dibattito pubblico e accademico sulla strage, così come dalla didattica scolastica. A distanza di cinquant’anni, con nuove generazioni protagoniste della storia, è tempo di affrontare questi temi e quegli anni senza timori. Se la maturità democratica di una società si misura con i suoi rimossi e la capacità di affrontarli, piazza Fontana e la strategia della tensione rappresentano il fulcro di una memoria che non è mai diventata davvero storia, né per il senso comune né per le istituzioni.
Questa storia crea un problema, in primis perché chiama in causa direttamente responsabilità istituzionali precise. Accettare l’oblio e la confusione in cui ci ritroviamo sarebbe un triste epilogo per una storia che vede tra i suoi protagonisti una moltitudine di donne e uomini che misero in dubbio la certezza della versione ufficiale che prevalse già all’indomani dell’esplosione, battendosi a lungo per smontare la macchina dei depistaggi e “il silenzio degli uomini del diritto”, come disse l’intellettuale Franco Fortini. Ancora oggi ci troviamo davanti alla necessità di un lavoro culturale e di “controinformazione storica” che ha a che fare con i nodi irrisolti del periodo di passaggio più importante della storia nazionale dopo la Liberazione; ignorare questa necessità sarebbe un facile alibi per evitare che lo Stato e la società civile se ne facciano carico iniziando così a invertire la rotta dell’attuale disgregazione culturale che viviamo.