Verso la fine di novembre ho incontrato sul tram un signore che conosco. Era con due ragazzi veneti sui vent’anni, lui e lei, in visita a Milano. Li accompagnava a vedere il Duomo, poi l’università Statale, infine Santa Maria delle Grazie. Un giro classico per chi viene a Milano da turista. “Ma lo iniziamo da piazza Fontana – ha aggiunto – così gli racconto della strage. Non sanno niente di quello che è successo lì. Io invece mi ricordo persino com’ero vestito”. Ho pensato subito che non ci fosse niente di strano nel fatto che due ragazzi non sapessero niente di un avvenimento tanto rilevante nella storia del loro Paese, e che, soprattutto, non avessero “colpa”. Se – mi sono detto lì per lì- bombardati dalle fake news non sappiamo bene cosa sia successo a Bibbiano l’altro ieri (sempre ammesso che sia successo qualcosa), figurarsi se possiamo imputare loro di non sapere nulla di 17 morti (più Giuseppe Pinelli, il diciottesimo) di una Milano del 1969, tanto diversa da quella che si apprestavano a visitare. Ho infine anche pensato che quel signore facesse benissimo, lui che di quel 12 dicembre si ricordava persino come fosse vestito, a ripartire, con quei due ragazzi, dall’inizio: la piazza, l’insegna (che è rimasta) della Banca nazionale dell’agricoltura, i morti, i responsabili politici dell’attentato, gli infaticabili depistatori, la macchina del fango (anche se allora non si chiamava così) contro gli anarchici Pinelli e Valpreda. Visto che sono passati 50 anni, è molto probabile che in questi giorni la tela della memoria – che è naturalmente piena di buchi – verrà rammendata un po’ grazie a libri, film, incontri, oltre a qualche professore di buona volontà che vorrà parlare di questa storia ai suoi studenti. Poi, naturalmente, l’erosione del tempo riprenderà. Penso però che i meccanismi dell’oblio o, peggio, del ribaltamento della verità – il revisionismo e il negazionismo purtroppo così in voga di questi tempi per altri periodi della nostra storia – con la Milano plasmata dalla strage di piazza Fontana alla fine non funzioneranno. Anzi, penso che piazza Fontana rappresenti un formidabile “caso di scuola” al contrario, utile per questo anche al presente. Il revisionismo – se vogliamo usare questo eufemismo per descrivere la pervicace volontà di alcuni apparati dello Stato di costruire una “falsa verità” sulla strage – con piazza Fontana è iniziato contemporaneamente agli avvenimenti, anzi addirittura prima, visto che la macchinazione contro i gli anarchici fu inaugurata in estate attribuendo loro la responsabilità di una serie di esplosioni alla Fiera. Un caso di “revisionismo in diretta”, mentre le cose avvenivano, – efficiente, implacabile, potente – e che tuttavia ha generato, ugualmente “in diretta”, gli anticorpi. Gli anticorpi di Milano furono sostanzialmente di due tipi. Uno di “massa”: la piazza dei funerali, per come è stata raccontata, fu una piazza che già sapeva, “ma non aveva le prove”. E uno fatto di singoli. Le loro storie sono straordinarie e poco note. Nel libro La bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana di Enrico Deaglio viene ripubblicata una foto del 2013: nella sala del Comune di Treviso ci sono i due ex magistrati Giancarlo Stiz e Pietro Calogero e l’ex “giovane professore che aveva capito tutto” Guido Lorenzon. Sorridono all’obiettivo un po’ impacciati in un raro incontro pubblico. Tre persone che avevano compreso in fretta che la pista giusta portava all’estrema destra neonazista e che per questo furono isolate e diffamate. Singoli, che per naturale propensione alla verità e alla giustizia, non si sono accodati. “Nessuno dei tre – scrive Deaglio – voleva fare l’eroe, anzi”. Ecco, l’anti-eroismo degli individui che non accettarono la macchinazione (non ci furono solo quei tre) è una delle eredità secondo me più importanti di piazza Fontana. Nel prato davanti all’insegna della banca (che strano un prato libero nel pieno centro di Milano) come è noto convivono da anni due lapidi. Non so quante altre città al mondo possano “vantare” due lapidi affiancate sulla stessa vicenda, la morte di Giuseppe Pinelli, anche lui un singolo. “Ferroviere anarchico innocente morto tragicamente nei locali della Questura” recita quella ufficiale del Comune; “ucciso innocente” dice l’altra, quella firmata dagli “studenti e democratici” milanesi. Una lapide che negli anni è stata vandalizzata, rimossa, rimessa. Ora sono tutte e due lì, e qualche mattina fa mi sono fermato ad osservarle un’altra volta, cercando di astrarmi un po’ da tutto quello che già si sa, che già è stato raccontato, su come andarono le cose. E ho pensato – uno di quei pensieri che si fanno lì per lì – che anche se ci sono due lapidi, anche se ci è voluto tantissimo tempo, Milano se l’è cavata bene.
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