Introduzione
di Marina Trentin e Niccolò Donati
Nel terzo appuntamento di “Cose di sinistra”, intendiamo soffermarci sul nodo del modello di sviluppo economico italiano e le sue intersezioni con questioni tecniche, sociali, territoriali ed ambientali. Ad accompagnarci in questa riflessione è lo storico Luca Michelini, che individua in Silvio Leonardi una delle figure più emblematiche nella riflessione sul ruolo che l’attore pubblico, lo Stato, debba rivestire nel processo di sviluppo economico nazionale.
Il contrasto tra il testo di Leonardi, scelto tra quelli del Patrimonio storico di Fondazione Feltrinelli, e l’inquadramento offerto da Michelini ci permette di apprezzare pienamente la figura di intellettuale organico di Leonardi. Se, infatti, Michelini ci aiuta a calare la figura di Leonardi nel contesto economico, politico e sociale dell’Italia nel secondo dopoguerra, mettendone in risalto le straordinarie intuizioni intellettuali, il testo di Leonardi è legato a doppio filo alla concreta realtà di sviluppo del Paese: siamo a fine anni Cinquanta, e si parla di costruire l’Autostrada del Sole, una delle opere ingegneristiche in cui si sarebbe materializzato lo spirito d’innovazione che caratterizzava la fase del miracolo economico.
L’intervento di Leonardi rientra nei lavori del Centro di Studi e Ricerche sulla Struttura Economica Italiana, creato nel 1957 all’interno dell’Istituto Feltrinelli per elaborare un piano di “riforme di struttura” necessarie a dare una soluzione positiva ai problemi dello sviluppo economico e dl processo sociale, superando la lettura della “semplice contrapposizione frontale di due classi”.
Il Centro Studi, per sua composizione, contribuiva a rompere l’immagine dell’Istituto Feltrinelli come istituzione organica al Partito Comunista Italiano, che difatti non accolse con leggerezza la costituzione del Centro. In questo contesto, viene messa in luce la straordinaria capacità di Leonardi — ingegnere, oltre che intellettuale organico — di tradurre in realizzazioni concrete i principi guida delle sue riflessioni. Così, Leonardi costruisce il suo discorso sovrapponendo ad accurate valutazioni dei mezzi tecnici considerazioni di tipo economico e sociale che assumono senso in un quadro politico più ampio. A queste sensibilità oggi se ne dovrebbe aggiungere almeno una quarta, prendendo cioè in considerazione i riflessi territoriali, sociali ed economici, che un’opera infrastrutturale comporta, ed una quinta, specialmente importante nel quadro del “Green new deal” e del cambiamento climatico, guardando a quali sono gli impatti ambientali dell’infrastruttura. Un pianificatore pubblico, insomma, si trova a dover operare scelte complesse, che coinvolgono un numero sempre crescente di alternative rilevanti. Leonardi, che già negli anni ’50 personificava questa deontologia, può aiutarci a capire il genere di considerazioni che un piano di sviluppo deve saper coniugare sapientemente, in ottica progressista.
Il percorso intellettuale e politico di Silvio Leonardi negli anni del miracolo economico – di Luca Michelini
Silvio Leonardi si colloca, nel panorama progressista del secondo dopoguerra, al crocevia tra ricerca scientifica e prospettiva politica, come figura intellettuale “organica” nel senso più nobile e complesso del termine. Quella di Silvio Leonardi è una figura che si lega indissolubilmente al dibattito interno del PCI, su quale ruolo il partito dovesse assumere all’interno del panorama politico ed istituzionale dell’Italia del secondo dopoguerra.
Silvio Leonardi si lega inoltre al dibattito più generale delle forze progressiste italiane, su quale modello di sviluppo economico e sociale complessivo dovesse guidare la trasformazione dell’Italia in potenza industriale.
Questo duplice ruolo si concretizzò nella fase del miracolo economico, quando Leonardi fu tra i protagonisti del tentativo di rafforzare la tendenza che voleva che il PCI diventasse organica forza pianista e quindi riformista, dopo che le elezioni del 1948 avevano interrotto il processo politico e sociale di collaborazione tra PCI e altri partiti progressisti nell’immediato dopoguerra: questo processo, secondo Leonardi, andava riavviato. Già nel saggio del 1957 Progresso tecnico e rapporti di lavoro, Leonardi si rendeva infatti conto di come l’economia italiana post 1945 non avesse più come orizzonte la fine catastrofica del capitalismo, ma potesse considerarsi compiutamente all’avanguardia del processo di taylorizzazione e di diffusione di pratiche manageriali. Queste, secondo Leonardi, non andavano intese tanto come ulteriore occasione di sfruttamento e alienazione dei lavoratori ma come processi neutrali di razionalizzazione della produzione che avrebbero potuto assumere un connotato democratico e socialista se governati a livello generale, attraverso una politica di piano orientata dai grandi partiti di massa. In questo quadro pluralista, il compito del PCI sarebbe stato quello di realizzare una “democrazia di piano”, costituendo così la “via italiana al socialismo”.
Nei decenni successivi, quando cioè si sarebbe formato compiutamente il centro-sinistra come forza di governo, si avranno i primi tentativi di pianificazione nazionale: dal piano Vanoni alla nazionalizzazione dell’ENEL. Ma è proprio in questa fase che il PCI, tramite esponenti come Leonardi e Dami, deve fare i conti con il concreto operare del planismo italiano e quindi con la forma che esso aveva assunto: intervento straordinario nel Mezzogiorno, partecipazioni statali, nazionalizzazioni, politica dei redditi. In questo contesto, emergevano due criticità. In primo luogo, il planismo italiano era dimostrato essere subordinato agli interessi dell’economia privata monopolistica, talvolta espressione di dinamismo imprenditoriale, più spesso assisa su evidenti posizioni di rendita parassitaria. La politica, portatrice potenzialmente di interessi generali, veniva sistematicamente e deliberatamente subordinata a quelli che si auto-rappresentavano come gli automatismi del mercato privato. In secondo luogo, per consentire questo tipo di subordinazione, soprattutto il Parlamento, ma anche la macchina burocratica erano svuotati di ogni effettivo potere di controllo e di indirizzo sulle industrie di Stato, lasciate in balia di un management di designazione politica che, una volta insediato, agiva in completa autonomia, ora secondo criteri clientelari ed antieconomici ora, invece, secondo criteri privatistici, conseguendo l’unico scopo del conseguimento del profitto aziendale. Le aggregazioni giuridico-ministeriali dell’industria di Stato erano nate dal caso, dall’emergenza, ed erano cresciute, anche per le resistenze delle coorti manageriali o clientelari gelose della loro autonomia, senza logica economica alcuna, senza cioè perseguire alcun obiettivo di carattere generale e universale.
E’ nella critica di questa precisa conformazione del planismo italiano che si può cogliere la fisionomia dell’idea di sviluppo promossa da Leonardi. Circa la netta distinzione tra economia e politica che sottendeva la subordinazione del planismo agli interessi privati, Leonardi considerava come la trasformazione, avvenuta dopo la prima guerra mondiale e la crisi del 1929, dell’economia mondiale in economia mista rendeva superata la distinzione tra economia e politica valevole per l’economia di mercato ottocentesca. Circa il secondo aspetto, riguardante il ruolo sostantivo dello Stato nell’economia, e la tensione dell’intervento pubblico verso obiettivi di carattere generale, secondo Leonardi il compito dei partiti di massa diveniva quello di costruire nuove forme di statualità e di sovranità che consentissero un governo realmente democratico, efficiente e dinamico dell’economia. Rinunciare a governare realmente, perseguendo cioè interessi universali e non di parte, l’impetuoso processo di industrializzazione e di urbanizzazione avrebbe implicato inevitabilmente una conflittualità sociale drammatica. Democratiche ed efficienti dovevano divenire le procedure di controllo e di indirizzo dell’economia. Democraticamente distribuite dovevano divenire le opportunità sociali. Efficienza, meritocrazia, redistribuzione del reddito, offerta efficiente di beni pubblici, completamento dei mercati, stimolo all’innovazione pubblica e privata, indirizzo sociale dei consumi privati, ridefinizione dei settori industriali strategici in cui era quindi davvero necessario l’intervento diretto dello Stato e privatizzazione di altri settori: questi divenivano i cardini della politica economica riformista, in grado, di garantire la crescita economica e insieme lo sviluppo civile del Paese.
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Centro di Studi e Ricerche sulla Struttura Economica Italiana, Silvio Leonardi
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