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“La violenza, le guerre, le migrazioni forzate, la decadenza di Topolino, il collasso morale?! Affacciati alla finestra!” Il regista teatrale è perentorio: impone all’attrice di affacciarsi alla finestra, di guardar fuori. Lei rifiuta. “Non posso”, dice, “è troppo umido”.

È agosto e il caldo è soffocante, a Beirut. Niente di strano, se ci si rintana nell’immaginaria sala prove per mettere in scena una pièce. Peccato che sia un agosto particolare, e non solo perché è il 2020 e il mondo è nel pieno della pandemia, ma soprattutto perché è il 4 di agosto, e questo surreale colloquio si svolge pochi minuti prima della più grande esplosione non-nucleare della storia del pianeta. 2750 tonnellate di nitrato di ammonio, stoccate malamente e da almeno sei anni in un magazzino del porto di Beirut, esplodono dopo ore e ore di combustione. E alle 18.07 del 4 agosto il cielo della capitale libanese viene squarciato da un fungo che muta repentinamente di colore, a seconda dei materiali che l’immane onda d’urto travolge.

Duecento morti, settemila feriti, trecentomila sfollati, 77 mila appartamenti distrutti, la stessa composizione urbanistica di Beirut stravolta. Anche i danni economici forniscono il senso di una tragedia incommensurabile: la Banca Mondiale parla di danni superiori ai quattro miliardi di dollari. E come se non bastasse, i quarantadue cilindri di cemento del silos del porto di Beirut, irreparabilmente danneggiati, diventano il simbolo del disastro: non potranno più ospitare le centoventimila tonnellate di grano, il pane per circa due milioni di persone, un terzo della popolazione che, tra cittadini libanesi e rifugiati, vive nel Paese dei Cedri.

Un lungo elenco di numeri, cifre, statistiche – questo – che dovrebbe mostrare l’enormità del disastro. Eppure, neanche questa lista dell’orrore riesce a esprimere quanto l’esplosione nel porto di Beirut sia una cesura nella storia non solo libanese. È una cesura nella storia contemporanea dell’intera regione.

Ci prova allora Sulayman al Bassam, uno dei più noti uomini di teatro arabi, una lunga esperienza nei teatri europei, con una particolare predilezione per Londra, coniugata con le produzioni portate in lungo e in largo in tutta la regione araba. Sulayman al Bassam ci prova con una pièce teatrale di cui cura drammaturgia e note di regia, ambientato proprio lì, a Beirut, nei minuti prima dell’esplosione.

Si intitola Mute, ed è un originale testo in progressione, un “lavoro in corso” mutevole, inserito quest’estate in Welcome to Socotra, il festival estivo di satira, teatro civile e danza che la Fondazione Feltrinelli organizza nella sede di viale Pasubio a Milano.

“Era tempo di Covid, nell’estate del 2020. Era tempo di pandemia, eravamo in un mondo alterato. Ci sono stati eventi, in sostanza, che hanno avuto un grande significato, in quel periodo, che hanno insomma avuto rilevanza in termini fattuali, ma anche in senso metaforico. Sono eventi che diventano i significanti di una enorme malattia strutturale”, spiega Sulayman al Bassam, di origine kuwaitiana, e allo stesso tempo esponente di una intellighentsjia araba che fa dell’attraversare confini una condizione di vita. “Un esempio – prosegue – è il caso che ha coinvolto George Floyd, proprio in quelle stesse settimane. Mentre tutto il mondo era terrorizzato all’idea di non poter respirare per il Covid, George Floyd diceva al poliziotto statunitense che lo aveva bloccato a terra “non posso respirare”, “I can’t breathe”. E il poliziotto ha continuato fino a ucciderlo, perché non pensava che la vita di quell’uomo fosse importante. Il caso di George Floyd è rivelatore di una questione strutturale negli Stati Uniti. Quando si è verificata l’esplosione a Beirut, l’evento ha avuto, anche in quel caso, più di un significato: è stata più di una cosa sola, è stata rivelatrice di più di un crimine di carattere sistemico. È stato, per esempio, il simbolo del degrado della struttura morale di un paese.”


Dove si trova, dunque, la ragione per una pièce teatrale sull’esplosione al porto di Beirut?

Diventa una questione morale. Non ce ne possiamo appropriare, perché non ne siamo stati testimoni e non siamo stati coinvolti dall’esplosione. Eppure, allo stesso tempo, l’esplosione è un segnale che ogni singola persona, nella regione araba, leggerà a suo modo. È per questo che assume un potere metaforico enorme. L’altro giorno stavo lavorando a Tunisi, e stavo proprio discutendo del significato dell’esplosione con una mia amica drammaturga. E lei mi ha detto: “sai, quando è successo, per me, era la descrizione  della situazione in cui si trova Tunisi”. Rappresenta, cioè, tanti altri luoghi, eventi, storie che mettono in relazione ciò che è disfunzionale, che corrode, che sminuisce lo stesso valore della vita umana”.

C’è dunque ancora uno spazio per il teatro politico?

È la domanda che mi pongo con Mute. E cioè, come puoi tu, Sulayman al Bassam, affermare di fare teatro politico? In questi giorni, in queste condizioni, di fronte a questi eventi? Sei un bugiardo, questa è la risposta che mi do. Devi essere onesto, mi dico: come puoi pensare di cambiare qualcosa, qualsiasi cosa, di fronte a questi eventi così schiaccianti, a queste asimmetrie strutturali?

E si è dato una risposta?

No. So però che queste domande debbono comunque essere poste.

Di sicuro c’è solo la risposta che ognuno di noi può fornire, individualmente. Dobbiamo dunque, con questo tipo di performance, mettere il pubblico in condizioni di fornire, ognuno per suo conto, la sua risposta individuale a queste domande. Ovviamente non c’è una grande pedagogia, non c’è nessun manuale di istruzioni in questo tipo di testo. Non si detta nessun programma e nessuna soluzione.

Nel testo si ripropone il cuore della discussione in corso da decenni all’interno del mondo culturale arabo. La discussione tra chi resta in silenzio e chi stigmatizza ed è parte attiva. La protagonista della pièce sceglie il silenzio. Restare muti può essere anche  una risposta all’enormità di un evento? E per evento intendo l’esplosione nel porto di Beirut, o le rivoluzioni, oppure le controrivoluzioni, oppure l’attentato del 2005 contro l’ex premier libanese Rafiq Hariri, o qualsiasi altra cesura nella lunga storia contemporanea della regione araba…. 

…o la guerra civile in Siria, o la diaspora araba in Europa, o la distruzione dell’Iraq, tutti gli eventi che hanno segnato la regione araba. La lista è infinita. Prima, nella regione araba, c’era una guerra ogni dieci anni. Almeno c’era una sequenza: sapevamo che ci sarebbe stata una guerra ogni dieci anni. Ora sembra, invece, che in questi dieci anni ci sia, ovunque nella regione, una sorta di guerra permanente. E non è neanche percepita come guerra, quanto piuttosto come una programmatica eliminazione dello spazio, dello spazio mentale, della lingua, della cultura. E comunque, devi continuare a difendere la tua umanità.

E la libertà.

Cos’è, infatti, la libertà? E perché torno sempre in teatro? Perché penso che il teatro sia uno spazio molto vicino a quella che io considero la libertà. È uno spazio fragile, e non è uno spazio reale. O meglio, è uno spazio iper-reale. Quello che mi ha portato al teatro, all’inizio, è proprio il fatto che è uno spazio di libertà.  E con il tempo che passa, e con la libertà che sembra sempre meno accessibile, è proprio quello spazio a diventare ancora più prezioso.

Lo spazio pubblico per il pensiero si è dunque ristretto?

Sì, si è ristretto lo spazio per la descrizione e per la critica. E anche per il giornalismo investigativo, che continua a essere bersaglio come lo è stato in questi ultimi decenni. Prenda Samir Qassir, uno dei più grandi giornalisti arabi: è stato ucciso, tolto di mezzo, a poche settimane di distanza da Rafiq Hariri, nel 2005. I giornalisti sono oggetto di minacce. E anche gli artisti sono bersaglio.  Guardi quello che sta succedendo in Egitto. E in parallelo c’è una fuga dei cervelli e dei talenti da molti di quelli che chiamerei i nuovi centri di potere autoritario. Forse gli artisti, attraverso la manipolazione dei loro materiali artistici, attraverso la contorsione e la metamorfosi del loro materiale possono – come Mercurio – riuscire a esprimersi. Un po’, solo un po’. Lo spazio pubblico è sempre più sotto attacco, si sta restringendo. È importante, allora, lavorare su forme che siano agili, versatili. Viaggiare con un bagaglio leggero ed essere flessibili. Questo è l’unico modo per mantenere libertà, sovranità, autonomia. Non è un’agenda per chiunque, e non è comunque un’agenda che soddisfa i ministeri della propaganda, dell’informazione, della cultura.


Tra Beirut e l’Italia, un filo rosso sangue

Beirut sembra lontana, così come il ricordo sbiadito – almeno qui in Europa – di quell’esplosione vista in tv e nei video apparsi sui social, ripresa dai telefonini di chi si trovava lì e in quel momento. Basta una nota di regia nel testo di Sulayman al Bassam per riportare a galla un sapore amarissimo e ben conosciuto in Italia.

“Forse, sul palco, c’è un time-code digitale, oppure un grande orologio meccanico, come quelli che si trovano nelle stazioni ferroviarie, che possa indicare lo scorrere del tempo durante le scene della prova”.

L’immagine indelebile dell’orologio della stazione di Bologna, fermo alle 10.25 di un altro giorno caldissimo d’agosto, il 2 agosto 1980, torna immediata alla memoria. La foto in bianco e nero di quell’orologio, che ci perseguita da decenni, dà il senso dello straniamento, degli oggetti che divengono simbolo della Storia. Intatta la cornice che contiene il meccanismo dell’orologio, intatte le lancette, spezzato il quadrante come spezzata è un’ostia.

Beirut e Bologna unite da un’esplosione dai contorni opachi. E da una frattura che pesa sulla storia di entrambi i paesi. Forse così è possibile spiegare l’enormità di un evento, avvicinandolo alla propria esperienza?

Sembra una storia lontana, difficile da decifrare anche attraverso i sentimenti che eventi catastrofici come questi provocano. Eppure ci sono state, anche in Italia, esplosioni che hanno rappresentato una cesura nella nostra storia contemporanea. Esplosioni che hanno unito con un filo rosso sangue l’Italia al Libano. Per meglio dire, la nostra storia a quella di Beirut. Quando, il 23 maggio del 1992, l’autostrada che dall’aeroporto conduce a Palermo venne nei fatti sventrata all’altezza di Capaci da 500 kg di tritolo sistemati in alcuni bidoni. In uno dei suoi primi lanci, l’agenzia ANSA dice che per uccidere i magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo,  era “stata utilizzata una tecnica ”libanese’.”  Anni dopo, era il giorno di San Valentino del 2005, fu una delle strade più importanti del centro di Beirut, vicino al mare, a essere sventrata da un attentato, quello contro l’ex premier Rafiq Hariri, il protagonista del Libano e della ricostruzione di Beirut dopo la guerra civile. Allora, nella capitale libanese, si parlò al contrario di un attentato in pieno stile mafioso: due tonnellate di esplosivo in un’autobomba.

I siciliani ricordano – tutti – dov’erano alle 17:58 del 23 maggio 1992. Gli abitanti di Beirut altrettanto. Sanno – tutti – dove si trovavano, cose stessero facendo alle 12.55  del 14 febbraio 2005. È quel minuto, quel minuto esatto, a segnare la cesura del tempo della storia, per un paese.

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