La tentazione di iniziare con uno stile da vecchia favola è fortissima. Dunque, proviamoci: C’era una volta un paese lontano lontano, dove il tempo di lavoro era distinto dal tempo di vita, le vacanze erano la sospensione totale dal lavoro e dalle faccende quotidiane, i tempi e i ritmi di lavoro si riducevano progressivamente, i negozi erano chiusi la domenica, eccetera eccetera. Poi tutto è cambiato.
Nostalgia romantica del passato o rifugio infantile nelle favole – che mai sono la realtà? Qui in verità ci interessa capire come e perché oggi (è la domanda) è scomparsa la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro, perché si lavora anche in vacanza, perché i ritmi e i tempi di lavoro e di vita si sono intensificati/esasperati diventando quasi compulsivi, perché i negozi/Amazon sono aperti h 24 (e godiamo di questo) – e perché siamo sempre più stressati e alienati ma nessuno si ribella. Risposta: invece di far adattare l’economia e la tecnica (il mezzo) ai tempi biologici e sociali dell’uomo (il fine) – come dovrebbe essere – stiamo sempre più adattandoci alle macchine e ai loro tempi, in un sistema diventato ormai (la società tecnologica avanzata di Marcuse), totalitario.
Perché è quella che chiamiamo ‘tecnica’ – e fatta non solo di macchine per altro sempre più integrate/connesse e convergenti in macchine sempre più grandi (la mega-macchina – Anders), ma soprattutto dalla razionalità strumentale/calcolante della modernità o che Eric Sadin chiama razionalità artificiale – che ci porta a dover ridurre a zero tutti i tempi morti, cioè non produttivi di profitto privato e di accrescimento del sistema tecnico, mettendo infine la vita intera dell’uomo (anche relazioni, conoscenza, socialità) a profitto e calcolo. Estraendo dall’uomo sempre più pluslavoro/plusvalore fino a farlo coincidere totalmente con la vita, come accade oggi nel nostro incessante lavoro di produzione di dati: dati che sono espressione della nostra vita, ma ormai integralmente ridotta a fattore di produzione/risorsa per il Big Data. Pluslavoro che qualcuno (Ferraris, Lanier) vorrebbe retribuire, così però portando a un livello ancora più totalitario la sussunzione e l’alienazione dell’uomo nel sistema.
Razionalità calcolante – o la dittatura del calcolo, secondo Paolo Zellini – e che ha nel governo economico e tecnico del tempo – mediante la sua crescente suddivisione/intensificazione, la sua accelerazione e il suo utilizzo esaustivo (Foucault) – la propria essenza e norma normante e normalizzante della vita. Se infatti il profitto/plusvalore capitalistico è determinato dalla produttività di uomini e macchine; se questa produttività da accrescere sempre più si basa sulla – perché è determinata dalla – divisione del lavoro, allora non sono ammissibili tempi morti. Dalla fabbrica di spilli di Adam Smith all’Organizzazione scientifica del lavoro di Taylor; dal just in time del modello Toyota alla lean production; arrivando oggi a una metrica del lavoro e a tempi ciclo dell’uomo calcolati/efficientati al centesimo di secondo come nel World class manufacturing e nella Fabbrica 4.0 e ora anche nella rete-fabbrica integrata globale – questa è appunto la regola-base o la legge ferrea del sistema, sempre replicata e affinata.
Nel lavoro come nel consumo. un’altra forma di lavoro, con le sue metriche e i suoi tempi ciclo di acquisto/consumo, dettati da moda, pubblicità e marketing per evitare che le merci restino troppo a lungo – un altro inefficiente e insopportabile tempo morto per il sistema – nella proprietà del consumatore e siano invece sostituite sempre più velocemente, agli algoritmi predittivi, all’automazione del pensiero dopo l’automazione del lavoro, alla possibilità di avere le risposte prima di avere fatto le domande, eliminando così anche il tempo morto della domanda.
Perché se la tecnica permette di utilizzare il tempo in modo sempre più esaustivo e accelerato; se la tecnica permette poi di spalmare il tempo di lavoro sull’intera vita dell’uomo cancellando la distinzione tra lavoro e vita – allora tutto questo non solo si può fare ma (Anders) si deve fare. Ed è appunto quanto le tecnologie di rete hanno permesso e determinato negli ultimi trent’anni, producendo la negazione della promessa della tecnica e dei suoi intellettuali-guru organici di allora (ma era una falsa promessa, perché in evidente contraddizione con la sua legge ferrea) – la promessa di una liberazione del lavoro e dal lavoro, grazie alla tecnica. E questo perché – ancora Anders – le forme e le norme di funzionamento e di organizzazione della tecnica (divisione del lavoro, calcolo, efficienza, accelerazione e poi connessione, sincronizzazione e convergenza di tutto e tutti in una fabbrica sempre più integrata) tendono a diventare le forme e le norme di vita individuale e sociale – comprese quelle che impongono accresciute e intensificate tempistiche e utilizzi esaustivi del tempo. E quindi, andando oltre Anders, possiamo dire che se l’ordo-liberalismo è quella corrente neoliberale che si propone di sovra-ordinare l’ordine del mercato e della concorrenza alla società e alle istituzioni (a prescindere dal demos), trasformando la società e lo Stato in mercato e gli individui in imprese di se stessi, così possiamo parlare di ordo-macchinismo, cioè della sovrapposizione dell’ordine della tecnica a società e Stato (sempre a prescindere dal demos). E la società di oggi è data quindi dal combinato disposto di questi due ordini.
Ovvero: la macchina del tempo non è quella immaginata, nel suo romanzo del 1895, da H. G. Wells, ma l’orologio. Scriveva quindi un grande sociologo oggi purtroppo quasi dimenticato, Lewis Mumford (1895-1990): “L’orologio, e non la macchina a vapore è lo strumento basilare della moderna era industriale”. E molti ricorderanno che la prima immagine del film Tempi moderni (1936) di Chaplin era proprio quella di un orologio, la macchina-base che fa funzionare (tempi e metodi) tutta la catena di montaggio e il lavoro degli operai alienati nella e dalla macchina/catena, ma soprattutto dal controllo del tempo; tempo che poteva essere accelerato semplicemente spostando una leva.
Se è così, allora dobbiamo ammettere che il futurismo – culto della macchina (oggi della rete e dell’innovazione a prescindere dalla sua utilità/effetti sociali), della velocità (oggi fino al tempo reale e oltre), del prodotto industriale (oggi materiale o immateriale), mito dell’azione (oggi il fare per il fare, il dover innovare, il doversi connettere, la competizione) e le parole in libertà (dai blog alle fake news ai tweet di Salvini) – non è mai morto e anzi ci pervade totalmente. È il nostro immaginario collettivo perché esprime, sinteticamente ma perfettamente, l’ontologia del tecno-capitalismo.
E così anche noi uomini – avendo dimenticato il concetto di alienazione e non vedendo la nostra totale sussunzione non tanto al capitale (Marx) quanto all’apparato tecnico – funzioniamo come le macchine e azzeriamo volontariamente (ormai incapaci di immaginarci come altro dalla nostra prestazionalità), tutti i nostri possibili tempi morti. Che poi erano appunto quei tempi di vita – lentezza, emozione, poesia, sensualità, responsabilità, riflessione, sguardi, conoscenza, sogno, immaginazione, utopia – che facevano l’uomo libero e capace di autonomia. Ma soprattutto, capace di rendere possibile se stesso come soggetto.
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Bibliografia essenziale
Anders G. (2003), L’uomo è antiquato, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino
Bartolini P. – Consigliere S. (2019), Strumenti di cattura. Per una critica dell’immaginario tecno-capitalista, Jaca Book, Milano
Chicchi F. – Simone A. (2017), La società della prestazione, Ediesse, Roma
Demichelis L. (2018), La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo, Jaca Book, Milano
Foucault M. (2008), Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino
Marcuse H. (1999), L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino
Rosa H. (2015), Accelerazione e alienazione, Einaudi, Torino
Sadin E. (2019), Critica della ragione artificiale, Luiss, Roma
Veca S. (2018), Il senso della possibilità, Feltrinelli, Milano
Zellini P. (2018), La dittatura del calcolo, Adelphi, Milano