Delle diverse città in cui ho abitato ho amato moltissimo: le librerie, i musei, perdermi nei vicoli dei centri storici e camminare per le piazze a naso all’aria, marciare in un corteo e sedermi ai tavolini dei caffè. Ho invece detestato, con altrettanta intensità: le molestie e gli approcci non richiesti per strada e sui mezzi pubblici, l’ansia sottile che ti spinge ad affrettare il passo ogni sera tornando a casa o quando attraversi una zona isolata, la paura alle fermate degli autobus notturni, quelli che non passano mai.
Non sono certo la sola, e so bene che tante donne nere e brown, lesbiche e transgender, con l’hijab o con una disabilità fisica o mentale, negli spazi pubblici si sentono ancora più vulnerabili di me. Né mi è (ancora) capitato di manovrare un passeggino lungo marciapiedi ed edifici concepiti senza la minima attenzione ai bisogni di corpi diversi da quello di un uomo bianco, abile, cis-gender e senza obblighi di cura.
Le donne, e in particolar modo quelle che popolano i margini del
tessuto urbano, hanno da sempre con le città un rapporto complesso, invischiato di odio e d’amore. In città, tante di noi si sentono libere di esprimersi, sperimentare, esplorare identità e modi di vivere. In città ci si può sentire sole tra la folla o mescolarsi ad anime affini, e si è sempre protestato, creato, fatta cultura e politica – non a caso da lì si sono propagate grandi rivoluzioni femministe, e non soltanto quelle.
Ma i centri urbani sono anche teatro di ingiustizie e di violenze, e nella loro topografia le disuguaglianze sociali e di genere si riproducono con particolare prepotenza. Ne ha scritto con intelligenza la geografa Leslie Kern nel recente The feminist city: viviamo in città disegnate per gli uomini, e per uomini privilegiati.
Queste dinamiche si sono ulteriormente aggravate durante la pandemia, riproponendosi in città, Paesi e continenti diversi. In tempi di restrizioni alla circolazione, per esempio, molte donne disabili che vivono in zone urbane si sono viste ridurre l’accesso a visite mediche e beni essenziali.
Lavoratrici da sempre costrette a pesanti turni di notte o a lunghi tragitti su linee di trasporto inefficienti sono state tra le prime a tornare al lavoro, e in alcuni casi non hanno mai smesso di lavorare
– oggi il timore del contagio le fa sentire doppiamente a rischio. A partire dal primo lockdown, le associazioni di settore hanno registrato un’impennata degli abusi domestici.
Per sfuggire ad un convivente violento, in tante si sono ritrovate senza un tetto, e dormire per strada presenta rischi unici per una donna. E ancora, c’è chi ha dovuto gestire bambine e bambini tra quattro mura. Faticosissimo per chiunque, ma
avere a disposizione una rete di supporto e un polmone verde aiuta,
mentre molte madri cittadine, soprattutto se single, vivono in appartamenti
minuscoli e in quartieri privi di parchi.
Sono anni che intellettuali, movimenti e segmenti di società civile ragionano sul concetto di diritto alla città, inteso non solo come rivendicazione individuale di accesso a risorse e servizi, ma anche come diritto a partecipare collettivamente alla trasformazione dei luoghi che si abitano. Da Barcellona a Napoli, si è provato a combattere gentrificazione e privatizzazioni selvagge, e a elaborare pratiche che rendano le nostre città ugualmente fruibili indipendentemente dal reddito o
dal genere. Oggi che la crisi sanitaria fa da cartina di tornasole alle carenze, alle dinamiche di esclusione e ai conflitti urbani, la rilevanza di questi temi ci è stata praticamente sbattuta in faccia. E se è vero che la pandemia non durerà per sempre, all’indomani dell’emergenza sarà vitale portare queste rivendicazioni al centro del discorso pubblico e degli interventi di policy-making. Altrettanto vitale sarà, allora, aprire bene gli occhi e le orecchie ai bisogni delle donne, e delle donne che si
trovano all’intersezione tra forme diverse di oppressione.
Non occorre iniziare da zero: la geografia, l’urbanistica e la politica economica femministe offrono spunti preziosi da integrare. Potremmo cominciare dal discutere di modelli di sviluppo urbano sostenibile che mettano al centro le relazioni umane, l’innovazione sociale, le idee e i progetti delle donne e di tutte le persone. Potremmo rivendicare politiche abitative e di reddito che permettano sia di vivere in città dignitosamente che di dedicare parte del proprio tempo alla comunità, indipendentemente dal genere, e sistemi di trasporti pubblici che aiutino a dividere equamente il lavoro di cura e a conciliarlo con altre responsabilità. E, infine, potremmo pretendere città sicure per le donne che le attraversano: il termine “sicurezza” è abusato dalla retorica conservatrice, ma non è una parolaccia.
Per sottrarla ai demagoghi, però, dobbiamo dire forte e chiaro che le città sicure non sono quelle presidiate a vista da forze di polizia. Sono quelle in cui si costruiscono reti e spazi di socialità, in cui si prende sul serio la voce di chi subisce violenza, e in cui si insegna a riconoscere e a sradicare alla base ogni stereotipo, ogni ingiustizia e ogni marginalizzazione.