Università di Copenaghen

Pubblichiamo qui un estratto del contributo di Mads Ejsing e Lars Tønder presentato nel volume Per cosa lottare. Le frontiere del progressismo pubblicato da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.


Come è possibile promuovere il tipo di cambiamento sociale che serve per salvare il pianeta da una nuova estinzione di massa? Per lungo tempo la risposta a questo tipo di domanda è stata la democrazia. Pare tuttavia che oggigiorno questa risposta abbia perso il suo fascino. I limiti delle attuali democrazie liberali sono particolarmente evidenti nel caso del cambiamento climatico. Le difficoltà associate a questa mancanza di azione potrebbero essere una delle ragioni per cui molti oggi pensano che la democrazia non dovrebbe più avere un ruolo centrale nella lotta al cambiamento climatico. In base a questa prospettiva, i processi democratici, lenti e inefficienti, non sono più in grado di fare alcuna differenza. Un sostenitore particolarmente rilevante di questa posizione è Bjørn Lomborg, che negli ultimi vent’anni ha lottato contro le politiche progressiste per la lotta al cambiamento climatico e usato invece una concezione élitista della politica (Lomborg 2001).

Per quanto questo approccio sembri certamente affascinante, è importante capire perché sarebbe un errore riporre tutta la nostra fiducia politica nel progresso tecnologico e scientifico. Il problema non è solo che la comunità scientifica non sia in alcun modo vicina ad avere le conoscenze e le competenze pratiche necessarie per realizzare quello che Lomborg e altri hanno in mente. È inoltre importante capire che anche minimi interventi nei processi ecologici che riguardano il cambiamento climatico avranno molto probabilmente conseguenze significative sui modelli meteorologici, sulle correnti oceaniche e sulle condizioni delle temperature. Alla fine, non abbiamo alcuna possibilità di risolvere le sfide sollevate dal cambiamento climatico se non affrontiamo gli attuali modelli di consumo e di produzione, responsabili della distruzione dell’ecosistema del pianeta. È importante notare che la resistenza nei confronti della democrazia si può anche rintracciare tra alcuni attivisti ambientalisti. Questa prospettiva sostiene che la democrazia non può risolvere il cambiamento climatico perché i suoi processi non sono né veloci né sufficientemente efficienti per produrre i cambiamenti su larga scala che sono necessari. Ciò di cui abbiamo bisogno è un governo delle élite autorevole e dai modi decisi. Questo approccio è tanto problematico quanto il primo, se non di più. Anche se mettiamo da parte le ovvie questioni pratico-politiche come chi dovrebbe nominare i leader globali e da dove essi trarrebbero la loro legittimità, l’idea stessa che una ristretta élite intellettuale debba governare il pianeta e che le decisioni prese in questo regime tecnocratico sarebbero sottratte al controllo democratico dovrebbe essere un elemento di preoccupazione.

L’unica risposta alla domanda su che cosa dovrebbe essere fatto per affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico è: rendere più ampia e intensa l’azione democratica. Particolarmente interessante e stimolante a tale proposito è il fatto che molti movimenti sociali che si dedicano alla lotta al cambiamento climatico sono anche impegnati e organizzati intorno a principi di democrazia radicale. Consideriamo, per esempio, Ende Gelände, un movimento internazionale di giustizia climatica che si è formato nel 2015. Il movimento ha promosso forme di disobbedienza civile e azione collettiva diretta come mezzi appropriati per combattere il cambiamento climatico e si è organizzato intorno a una rete altamente decentralizzata di gruppi d’azione, i cosiddetti finger, ciascuno composto da numerosi gruppi affiliati più piccoli. Ma il sistema a finger serve anche come meccanismo di inclusione democratica, che permette a un alto grado di eterogeneità ideologica di coesistere all’interno dello stesso movimento senza perdere di vista l’obiettivo condiviso. Un altro caso interessante per valutare il potenziale connaturato all’interno di queste forme inclusive e orizzontali di movimenti democratici è rappresentato dagli eventi in Grecia a seguito della crisi finanziaria del 2008. Le proteste popolari sono culminate nel 2011 con il movimento Occupy. Anche questi movimenti erano organizzati orizzontalmente con numerosi punti decentrati di azione collettiva, comprese formazioni spontanee di banche del tempo auto-organizzate, cliniche mediche di solidarietà, biblioteche, eco-comunità e altri gruppi di affinità (Varvarousis e Kallis 2017, p. 136). Dai giorni delle proteste nelle piazze, diverse centinaia di cooperative sociali hanno iniziato a lavorare in Grecia. Uno sviluppo particolarmente promettente a tale proposito è il concetto di auto-organizzazione politica radicale discusso da Romand Coles e altri (Coles 2016). L’idea è la seguente: nei complessi sistemi democratici, siano essi nazionali o internazionali, non è possibile governare attraverso un’organizzazione centralizzata di potere con una leadership che definisca il corso da seguire in base al risultato di un’elezione. Nei complessi sistemi democratici, invece, gestione e leadership si realizzano sull’orlo del caos, dove piccoli input possono diventare di importanza fondamentale per l’intero sviluppo del sistema. Da questo punto di vista radicalmente democratico, la leadership e il governo democratico diventano allo stesso tempo più decentrati e più onerosi. Decentrati perché questo significa che ognuno nel sistema può influenzare l’intero sviluppo. Onerosi perché richiedono anche a coloro che partecipano alle parti decentrate del sistema di esercitare una disposizione democratica radicale, che implica una profonda reciprocità verso la differenza e che mira alla sopravvivenza e allo sviluppo comuni piuttosto che all’interesse personale e/o alla massimizzazione del profitto. Suggeriamo una visione della leadership democratica che sia complementare agli studi esistenti sulla democrazia radicale e sull’ambiente, mettendo in primo piano cinque interventi.

  1. Espandere l’autorità delle comunità locali e di altri gruppi decentrati: dal momento che l’auto-organizzazione politica è sempre un processo che dal basso procede verso l’alto, è essenziale che l’autorità politica sia la più diffusa possibile, generando le condizioni necessarie per il coordinamento e la collaborazione.
  2. Coltivare una mentalità “scout” come parte dell’educazione democratica e della cittadinanza: una vera leadership democratica non si realizza in cima alla gerarchia, ma evolve attraverso incontri ravvicinati con problemi e sfide che sono legati a un tempo e un luogo specifici.
  3. Date le multiformi sfide associate all’Antropocene, è essenziale che vi sia sperimentazione.
  4. Creare nuove forme di rappresentanza che includano ecosistemi ed entità non umane: dal momento che una caratteristica fondamentale dell’Antropocene è il legame fra vita umana e non umana, è assolutamente naturale includere quest’ultima nel processo decisionale.
  5. Realizzare reti di solidarietà che si estendano al di sopra e al di sotto degli attuali confini nazionali.

La risposta che qui abbiamo tracciato ricorda quello che il teorico democratico William Connolly aveva chiamato “la politica dello sciame” (Connolly 2017). L’idea è che anche piccoli, ma numerosi, movimenti in punti diversi all’interno di un sistema democratico possano ampliarsi e raggiungere una massa critica che li renda capaci di determinare un cambiamento su larga scala. Affinché una cosa del genere si verifichi anche per il cambiamento climatico è necessario che ciascuno di noi, individualmente e collettivamente, individui spazi nei quali può aiutare a coltivare anche piccoli cambiamenti e movimenti, che saranno cruciali per preparare il terreno a quei cambiamenti di più ampia portata e scala che saranno necessari per affrontare i mutamenti climatici.

 

 

 

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