Sul «Time» del 25 marzo 2013, riferendosi alla crisi esplosa tra il 2007 e il 2008, il giornalista Michael Schuman scriveva:
Il capitalismo sembrava aver mantenuto la promessa di portare tutti a un livello più alto di ricchezza e benessere. O almeno così pensavamo. Con l’economia globale in crisi prolungata e i lavoratori di tutto il mondo alle prese con la disoccupazione, i debiti e la stagnazione dei redditi, la feroce critica di Marx sulla natura intrinsecamente ingiusta e autodistruttiva del capitalismo non può più essere liquidata facilmente.
Si tratta di uno tra i tanti possibili esempi della ripresa d’interesse per Marx e Il capitale, apparso ad Amburgo nel 1867, frutto di lunghi anni di ricerche e riflessione. Fin da giovane, infatti, ancora impegnato nel giornalismo democratico, l’autore aveva individuato un nesso inscindibile tra la società politica e la società civile. Nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859), ricordava:
Il primo lavoro intrapreso per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel, lavoro di cui apparve l’introduzione nei Deutsch-französische Jahrbücher [Annali franco-tedeschi] pubblicati a Parigi nel 1844. La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per sé stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di “società civile”; e che l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica.
Marx pubblicò quindi un’opera di critica dell’economia politica, non pretendendo di fondare una dottrina complessiva, chiusa e conclusa, come del resto appare chiaro sin dal sottotitolo del suo opus magnum: critica dell’economia politica.
In rapporto al destino postumo del libro, si pongono naturalmente problemi di vasta portata, che qui non è possibile affrontare. Alcuni elementi, però, sono da considerarsi accertati, e in primo luogo l’osservazione che l’opera di Marx è in realtà fondamentalmente incompiuta.
Nel 1845 egli aveva proposto a un editore tedesco un’opera dedicata alla Critica della politica e dell’economia politica. Non se ne fece nulla e un manoscritto in seguito conosciuto come L’ideologia tedesca venne abbandonato alla «rodente critica dei topi» (conteneva uno schizzo mirabile della concezione materialistica della storia; sarebbe stato pubblicato solo nel 1932, quasi un secolo più tardi). Marx decise quindi di affrontare l’analisi dell’economia politica, quale prima tappa di un progetto complessivo di critica della società del capitale, prevedendo un lavoro articolato in sei rubriche, suddivise in due triadi: capitale, lavoro, proprietà fondiaria; Stato, commercio estero, mercato mondiale.
Pensava originariamente ad agili fascicoli, ma il primo, proprio Il capitale, gli sfuggì del tutto di mano, e al momento della pubblicazione annunciava che la prima delle sei rubriche sarebbe stata suddivisa in quattro libri dedicati ai seguenti argomenti: il processo di produzione; il processo di circolazione; il processo complessivo; la storia della teoria. In vita, pertanto, Marx non pubblicò che il primo di quattro libri della prima di sei rubriche: era ben lontano dalla conclusione di un qualsiasi “sistema”.
In verità – lo si ripete – Il capitale è un’opera critica, non fonda una dottrina economica “nuova”, ma è un libro rivoluzionario, dove non scompaiono né l’etica né l’utopia di un mondo nuovo fondato sull’uguaglianza: un libro non scientifico, secondo gli approcci dominanti novecenteschi. Si tratta comunque di un’opera non ideologica, non dogmatica, non giustificatrice, ma sistematica, profonda, animata dalla ricerca appassionata della verità. Non pretende di annunciare la rivoluzione sociale quale cataclisma messianico; anzi, parlando dei segni di cambiamento che osservava, nella Prefazione alla prima edizione dell’opera, Marx chiariva con nettezza che essi «non significano che domani accadranno miracoli. Indicano che anche nelle classi dominanti albeggia il presentimento che la società odierna non è un solido cristallo, ma un organismo capace di trasformarsi e in costante processo di trasformazione».
Il capitale, quindi, è un’opera scientifica nella misura in cui distrugge le certezze del passato e riduce in brandelli la consolante visione ideologica che l’economia politica classica forniva del mondo. Ma non è soltanto questo; nella capacità di intrecciare scienza, etica, utopia, c’è tutto il suo fascino, l’originalità e la forza ineguagliata:
Le mie concezioni – scriveva Marx nel 1859 –, in qualsiasi modo si voglia giudicarle […] sono il risultato di lunghe e coscienziose ricerche. Sulla soglia della scienza, come sulla porta dell’inferno, si deve porre questo ammonimento: “Qui si convien lasciare ogni sospetto/Ogni viltà convien che qui sia morta”.