Storico e linguista olandese, Johan Huizinga è considerato uno degli intellettuali più importanti del XX secolo. Si interessò alla filologia comparata e poi alla storia, attento a cogliere soprattutto la condizione umana espressa nella realtà culturale e spirituale di un’epoca. Figura di riferimento della resistenza politica e morale all’invasore nazista, fu per questo imprigionato nel 1942 e in seguito confinato a de Steeg presso Arnhem, dove morì nel febbraio 1945.
Durante la guerra, il libro Nelle ombre del domani del 1935 divenne una lettura di riferimento tra gli amanti della pace e della cooperazione internazionale. Il volume ebbe notevole diffusione in Italia, dove fu pubblicato le 1937 con il titolo La crisi della civiltà. Tra i passaggi più celebri figura un ritratto dello Stato come entità esente da qualsiasi valore morale ed esclusivamente votata alla gestione del potere:
La Storia non conosce quasi altri movimenti che spieghino le azioni di reciprocità o di ostilità negli Stati se non come effetto della morbosa volontà di predominio, di ingordigia, di interesse e della paura. Tutti elementi che la teoria dell’assolutismo volle rubricare sotto l’espressione “ragion di Stato”.
Tale visione fortemente critica dei governi nazionali non impedì tuttavia a Huizinga di concludere il libro con l’auspicio di un’evoluzione positiva:
Ovunque spunti anche una flebile pianta di vera internazionalità, elevala e annaffiala. Annaffiala con l’acqua viva della tua coscienza nazionale, qualora sia pura. Questa pianta crescerà tanto più rigogliosa. Il sentimento internazionale – la cui parola in sé comporta la conservazione della nazionalità ma di nazionalità che si tollerino l’una con l’altra, e che non trasformino le differenze in un motivo di conflitti – può diventare il modello di una nuova etica, in cui verrà meno l’antagonismo tra collettivismo e individualismo. È forse vano sognare che un giorno questa terra possa essere buona a tal punto?
Potrebbe oggi apparire difficile conservare tale speranza, dato che nemmeno la pandemia ha potuto interrompere i molteplici attriti e conflitti internazionali in corso. Eppure, un “modello di nuova etica” si sta effettivamente manifestando con sempre maggior intensità sullo scacchiere internazionale. Si tratta di una dinamica nata proprio ai tempi di Huizinga: la diplomazia delle città.
Forte di oltre 200 reti internazionali di città e una miriade di gemellaggi, la diplomazia delle città nasce negli anni ‘10 del secolo scorso con l’ambizioso obiettivo di rafforzare l’azione dei governi municipali attraverso lo scambio di informazioni e buone pratiche, la creazione di progetti comuni e il lancio di campagne di sensibilizzazione volte a promuovere una “via municipale”, pragmatica e collaborativa, alle relazioni internazionali.
È infatti proprio nelle aree urbane di tutto il mondo che le grandi sfide transnazionali della nostra epoca – cambiamento climatico, migrazioni, estremismo, aumento delle disuguaglianze, transizione digitale – concentrano i propri effetti più significativi. In Italia come all’estero, è ben noto che le amministrazioni comunali si ritrovano puntualmente in prima linea nella ricerca e applicazione di soluzioni sostenibili a crisi sempre più gravi e urgenti. La pandemia ha ulteriormente ampliato lo iato tra il ruolo che i Comuni devono svolgere e le risorse a loro disposizione. Non stupisce, quindi, che un numero sempre maggiore di città di tutto il mondo faccia ricorso alle relazioni internazionali allo scopo di identificare e adattare buone pratiche per far fronte alle conseguenze sanitarie, sociali ed economiche della pandemia, permettendo al tempo stesso di realizzare gesti concreti di solidarietà come l’invio di materiale sanitario verso le città più colpite.
Poiché tuttavia i benefici della collaborazione internazionale non sono certo una prerogativa degli enti locali, le ragioni di tale specificità vanno cercate altrove. Per quanto possa apparire paradossale, sono innanzitutto le competenze precluse alle città ad averne determinato la vocazione di pace e cooperazione. A differenza delle nazioni, le città sono infatti prive di strumenti per imporre la propria volontà all’estero. Sanzioni, embarghi e interventi militari sono evidentemente estranei ai rapporti tra città estere, che dipenderanno quindi dalla volontà e dalle effettive opportunità di dialogo e scambio.
Nei Paesi dall’ordinamento democratico e decentrato, tale vocazione ha d’altronde favorito l’emergere di un’opposizione municipale alla politica estera nazionale di matrice sovranista e populista. Ne sono un esempio le delibere adottate nel 2003 da oltre 160 città degli Stati Uniti contro l’intervento armato in Iraq e, più recentemente, l’opposizione di decine di sindaci italiani, fra i quali il primo cittadino di Palermo Leoluca Orlando, al celebre decreto Salvini, in seguito dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Per quanto si tratti di iniziative su scala prettamente nazionale, entrambe hanno ricevuto la solidarietà e il pieno sostegno politico di sindaci da tutto il mondo, rafforzando quindi l’evidenza di un vero e proprio fronte municipale globale mosso dai valori auspicati da Huizinga.
Seppure questo spirito non sia ancora in grado di riorientare le dinamiche internazionali, la campagna delle città e delle loro reti per la cosiddetta “sedia al tavolo globale”, ovvero la propria inclusione nei processi decisionali regionali e mondiali, sta guadagnando il favore sempre più convinto di diverse organizzazioni intergovernative.
Non stupisce che le istituzioni preposte alla collaborazione internazionale riconoscano le città e gli altri enti locali quali attori necessari a consolidare il multilateralismo e a reagire efficacemente alle grandi sfide globali sopra menzionate. Sono infatti sempre di più le istanze ufficiali create dalle organizzazioni internazionali per favorire la definizione di una visione locale su questioni di rilevanza regionale o mondiale. Ne sono un esempio il Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa, il Forum dei Sindaci promosso dalla Commissione Economica per l’Europa dell’ONU e, da ultimo, la creazione di un Gruppo consultivo sui governi locali e regionali, annunciata dal Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres lo scorso settembre.
Affinché questa “sedia” possa essere formalmente attribuita, sarà tuttavia indispensabile l’appoggio convinto delle nazioni, dal quale dipende qualsiasi riassetto dell’attuale ordine internazionale. Le città sono oggi in attesa di uno Stato che si faccia alfiere della loro causa, iscrivendola così nell’agenda globale.
È lecito aspettarsi che il principale sostegno a tale processo proverrà dagli Stati democratici, decentrati e con una forte tradizione municipale, riconosciuta come motore essenziale del proprio sviluppo politico, economico e culturale attraverso i secoli. Difficile immaginare un candidato più adatto e simbolico dell’Italia, Paese delle città per eccezione. Saprà quest’ultima cogliere tale straordinaria opportunità e dare avvio alla più grande rivoluzione dell’ordine internazionale degli ultimi secoli, realizzando così il sogno di Huizinga?