Il tema fascismo/antifascismo si sta sviluppando nel dibattito pubblico intorno all’asse del populismo e democrazia.

Tema interessante, anche se una terza parola chiave, qualunquismo, è largamente sottaciuta. Esperienza ma anche, e forse soprattutto, sentimento, se non convinzione che nella storia della società, almeno in Italia, ha avuto un peso rilevante, non solo pensando al movimento “Uomo Qualunque” di Guglielmo Giannini, ma anche al rapporto che noi italiani abbiamo avuto con la politica prima del fascismo, nel fascismo e nell’Italia repubblicana fino al nostro presente.

Tema complesso, dunque, che chiede certamente la rilettura di fonti ma anche di studi critici, saggi, narrativa che lungo il Novecento ha prodotto, insieme ad analisi di un vissuto e di un’ideologia, nel tentativo di definire e descrivere una famiglia politica.

Riaprire quel dossier, tuttavia, non chiede solo di tornare a leggere le fonti. Implica anche l’avvio di un profilo di riflessione su diverse variabili e molte sensibilità disciplinari, quali per esempio: economia, sociologia, politologia, antropologia, ma anche narrativa. Tutto questo con uno sguardo che contemporaneamente sappia leggere i processi in atto e lo coniughi con quelli di “lunga durata”. Uno sguardo comparativo diacronico sul rapporto presente/passato/presente, di attori e scenari nazionali, ma anche uno sguardo comparato sincronico sulle forme della crisi della politica in molti scenari odierni in Europa e altrove. Sulla variegata e “litigiosa famiglia” UE ci sarebbe da chiedersi se voglia o no essere una famiglia (anche perché, come è noto, la famiglia non è un luogo in cui tutti i membri godano degli stessi diritti ed esercitino lo stesso tipo di potere). E questo interrogativo dovremmo porcelo guardando, non solo dentro la UE, ma anche ai confini immediati dell’Unione, nei suoi territori di confine, cioè le singole realtà dell’ex blocco sovietico, ma anche Russia post sovietica.

È questo un tema proprio solo l’Europa? Non riguarda anche molte realtà dell’America Latina? E non coinvolge anche realtà politiche extraeuropee, per esempio in Medio Oriente, attraverso fenomeni di costruzione delle forme politiche delle etno-democrazie? Non penso solo a Israele ma anche, e soprattutto, alla Turchia, senza dimenticare i regimi forti del Golfo e quella “non realtà politica” che è oggi l’Iraq o l’Afghanistan per esempio che occorre provare a definire, e forse prima ancora descrivere oltre il vago termine di “islamico”. Non tralascerei, per tornare di nuovo in Europa, alcune realtà del Centro dell’Europa, realtà che con l’insorgenza di nuovi movimenti politici e tendenze culturali, soprattutto a partire dalla fine del Novecento hanno rimesso in gioco ciò che chiamiamo liberalismo. Non solo le sue pratiche, ma anche il suo vocabolario: l’Ungheria prima di tutto, ma anche la Svezia e la Norvegia che a lungo abbiamo considerato solide e non inquiete.

Sono tutte categorie che hanno una storia nella discussione pubblica e che in Italia hanno circolato con difficoltà negli ultimi 20 anni. Un effetto di questa difficoltà è anche l’uso reiterato, fino a divenire esorbitante e poco analitico del termine fascismo (su cui opportunamente richiama Alberto De Bernardi nel suo recente Fascismo e antifascismo Donzelli).

Quello che è in questione in varie forme e che chiede di essere analizzato proponendo alcune categorie concettuali generali, ma anche una lettura di contesto (non solo economico e sociale, ma culturale, non ultimo intorno all’autorappresentazione, ovvero alla costruzione del paradigma autodescrittivo) è la fisionomia della crisi e le risorse che attiva, mette in campo, richiama, fa riemergere. Dunque una lettura, appunto, presente/passato/presente.

Se noi ci limitiamo al caso italiano (ma, ripeto, il punto è proporre una lettura analitica e comparativa tenendo presenti almeno alcuni dei contesti di area nazionali che non si limitano al caso italiano) colpisce la forza, ma anche la velocità con cui la parola “fascismo” è tornata potentemente nel linguaggio pubblico, spesso usata sia da chi invoca letture nostalgiche del passato, sia da chi le combatte aspramente come un brand italiano. A suo modo uno stile, cui da ultimo non sarebbe estranea l’idea, già cara a Guglielmo Giannini, che non ci sia bisogno della politica e che anzi, la politica sia un costo da sopportare, un prezzo da pagare, per potere vivere.

Ci sarebbe molto da discutere sulle dimensioni antropologiche di questa lettura. Dimensioni di lungo periodo, ma che dunque prescindono anche dalla questione fascismo, su cui molti anni fa, inascoltato, come spesso è capitato a chi sta fuori dal sistema, aveva richiamato Ruggiero Romano, nel suo Paese Italia (Donzelli), che non sarebbe male riprendere in mano. In altre parole, per chiudere su questo punto, la prima cosa di cui manchiamo è un’analisi che tenga conto delle molte variabili di contesto che ci devono indicare e sollecitare a scavare in ciò che c’è di nuovo, ma anche a guardare alla dimensione di lunga durata che tiene insieme e riscrive i patti costituenti di identità di comunità, analisi il cui fine è guardare agli elementi di coerenza – il che non significa di ripetizione del passato – con la propria tradizione storica. Ci sono molte variabili che è bene tenere presenti.

La prima consiste nell’indagare, appunto, molti contesti nazionali.

Per esempio, nel 2017 – riflettendo sul profilo di un lungo ciclo politico – lo storico Enzo Traverso nel suo I nuovi volti del fascismo (Ombre corte) proponeva un’analisi del carattere di lungo periodo della crisi in Francia come un aspetto della plausibilità dell’uso del termine fascismo. Tema che rimette in questione la stessa categoria di neofascismo, a lungo letta come continuità con il passato e che hanno sollecitato, nel caso italiano, sia l’analisi delle trasformazioni antropologiche proposta da Ezio Mauro nel suo L’uomo bianco (Feltrinelli), sia la riapertura di un supplemento di indagine sulle cultura politiche del neofascismo cui ha richiamato giustamente l’attenzione Christian Raimo, e soprattutto pensando a quanto è venuto scrivendo Claudio Vercelli nel suo Neofascismi (Edizioni del Capricorno).

Nell’immagine: la caduta della statua di Enver Hoxha. Tirana, Albania 1991

 

Ma appunto non ci sono solo la Francia e l’Italia. Si tratterebbe di proseguire un’indagine che Fondazione Feltrinelli aveva già avviato con la raccolta Democrazie inquiete e che ora, anche sulla scorta delle ultime vicende politiche in America Latina (elezioni in Brasile, ma non solo), riapre la questione di una lettura rinnovata dei populismi in quell’area. Un percorso di ricerca, quest’ultimo, che Federico Finchelstein ha avviato da tempo e che ha recentemente condensato nel suo From Fascism to populism (California University Press).

Percorso che deve riprendere in mano tutta un’analisi non “orientalista”, avrebbe detto Edward Said, dell’America Latina, ma guardando e scavando nelle inquietudini, nella storia lunga di quella parte di mondo, che a lungo non è stata parte dell’agenda culturale perché si era attratti dal dato esotico o dalla visione “turistica” di ciò che era l’extra Europa.

Ma anche – ed è la seconda questione – il nesso e la congiunzione tra sovranismo, neonazionalismo e riscrittura delle appartenenze etniche o identitarie delle comunità nazionali.

Sovranismo non significa solo nazionalismo. Riguarda anche un’idea tanto di economia come di composizione culturale e sociale del gruppo umano che ci si propone di governare. Binomio (economia + idea politica) che è bene tenere presente perché il sovranismo ha un carattere sia descrittivo, sia prescrittivo. Ovvero: sovranismo riguarda il concetto di confine, in relazione tanto a chi tenere fuori, quanto a chi tenere dentro. Perciò sovranismo come «socialismo nazionale», come idea di economia nazionale, di modello economico a forte marchio nazionalista.

C’è una traduzione economico-politica e culturale, in Italia e fuori Italia, che anni fa è stata al centro della riflessione degli storici del pensiero economico (penso per esempio agli studi e alle ricerche presenti nell’Annale di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli diretto e coordinato da Luca Michelini e Marco E.L. Guidi  su Marginalismo e socialismo nella storia d’Italia).

Pensare in termini di economia nazionale sui gruppi umani non include solo un lessico che può essere attratto dal razzismo, dalla xenofobia, dall’antisemitismo e dal sessismo e omofobia ma include un’attenzione rinnovata al modello di società nazionale su cui si costruisce l’idea di sviluppo economico o di modello economico nazionalista, cui quella cultura politica o quell’immaginario politico allude. Qui si tratta di riproporre come si forma un linguaggio dell’economia e della politica nel corso del ‘900 e come questo in parte si riproponga in seguito alle forme attuali della crisi. Linguaggio che riscopre la violenza come linguaggio politico tema su cui opportunamente ha da tempo concentrato l’attenzione la Fondation Maison des Sciences de l’Homme di Parigi sui temi della violenza politica (Violence and Exiting Violence Platform), in un progetto di ricerca coordinato da Michel Wieviorka e Jean-Pierre Dozon che indaga e studia le molte forme della violenza in società diverse: in Europa, ma anche in Asia, in Africa, in America Latina, negli Stati Uniti.

Centrale è l’attenzione alle forme narrative, alla costruzione del linguaggio con cui si rivisita e si ricostruisce oggi la scena del passato.

Da questo punto di vista è molto interessante dedicare attenzione a M. di Antonio Scurati (Bompiani), un testo che molti hanno ricordato per gli errori che contiene, non per i meriti che ha. Ovvero questo libro offre la grande opportunità di raccontare e ricordare una storia, quella storia, e di raccontare e ricordare quanta modernità e quanta capacità attrattiva abbia quella figura politica.

Senza entrare nel merito di che cosa rappresenti la narrativa rispetto alle potenzialità, spesso non espresse, dalla saggistica, comunque richiama una questione più grande, specie per chi si propone come storico: cioè che indagini e riflessioni innovative sul passato e sulle trasformazioni e sulle tensioni del presente sono per lo più espresse dalla letteratura e non dalla saggistica storica. Non è forse vero che Zhivago ci ha costretto a rileggere la rivoluzione d’ottobre più dell’opera di E. H. Carr? O che Il Gattopardo ci ha raccontato il Risorgimento con più efficacia di Giorgio Candeloro o di Rosario Romeo? Quanta verità storica c’era e c’è in entrambi? Difficile dirlo.

Consideriamo solo un fatto: l’analisi e lo scavo intorno alla personalità del terrorista contemporaneo. I testi di letteratura non contengono il vero ma la macchina che ci fa entrare nei sentimenti del terrorista la descrive la letteratura e non la storiografia. Merry Levov, la protagonista adolescente di Pastorale americana di Philip Roth; Yazdi, il figlio deficiente del cantastorie arabo Khilmi ne Il sorriso dell’agnello di David Grossman; Lee Harvey Oswald di Don DeLillo in Libra; Nafa Walid, il protagonista di Cosa sognano i lupi di Yasmina Khadra, hanno in comune il vuoto che la vita quotidiana. Nel racconto del vissuto di quel vuoto prende corpo lentamente la forza di una reazione che si fa violenza, che adotta la distruzione come codice di comportamento. Quel vuoto non è un tema dell’indagine storiografica.

Dunque il tema è: come si affronta con pacatezza e possibilmente senza tifoserie, ma con passione questa questione? Il tema non riguarda solo ed esclusivamente come si scrive il vero, ma come si produce racconto e scavo nel passato, talvolta anche molto prossimo (penso per esempio a L’orologio di Carlo Levi, o a Anatomia di un istante di Javier Cercas) in grado di riaprire i luoghi comuni nel e del  presente, proprio in forza di una struttura della narrazione, per ciò che comunicano, per il costrutto letterario che propongono, non perché presentano documenti o fonti rimaste fino alla scrittura di quei testi inesplorate.

Questione, inoltre, quella della scrittura narrativa, che riguarda anche – e forse soprattutto – il tema delle identità o dei sentimenti politici del nostro tempo, la capacità di fare uno scavo nell’anatomia e provare a proporre percorsi di genealogia del sentimento pubblico e delle emozioni che oggi muovono e fanno decidere (e votare) milioni di persone.

Da fuori Italia ci vengono molte suggestioni di lavoro, ma anche chiari sforzi di tentativi di leggere con lenti nuove, nuove griglie interpretative e con passione le inquietudini del nostro tempo.

Possiamo parlarne, auspicabilmente senza tifoserie?

Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 50936\