L’antropologia è un sapere di frontiera perché oltrepassa i confini culturali e statali, perché rifiuta le certezze del mondo di cui è espressione per aprirsi ad altri mondi, ad altre esperienze di significato. Un sapere come ci ricorda Ugo Fabietti che sta sulla frontiera: sulla linea di incontro fra tradizioni intellettuali e modi di pensare tra culture diverse. Compito dell’antropologia è gettare un ponte tra queste culture. L’antropologia è, in questo senso, un sapere meticcio, in cui le idee di coloro che la praticano sono largamente influenzate da quelle di chi ne costituisce l’oggetto.
L’antropologia però è anche una frontiera, perché esprime il limite della cultura che l’ha vista nascere, perché si pone come sapere mobile, sempre disposto a riformulare i propri parametri sulla base delle nuove esperienze, suscettibili di produrre nuove interpretazioni.
Sono molti anni che Francesco Remotti nelle sue pubblicazioni, ci mostra efficacemente come non dobbiamo avere paura di decostruire le nostre identità: «il primo passo che occorre compiere è esattamente quello di uscire da una logica puramente identitaria ed essere disposti a compromessi e condizioni che inevitabilmente indeboliscono le pretese solitarie, tendenzialmente narcisistiche e autistiche dell’identità. Uscire dalla logica identitaria significa inoltre essere disposti a riconoscere il ruolo formativo, e non semplicemente aggiuntivo o oppositivo, dell’alterità» (Contro le identità, Remotti, 2001)
Ma chi sono “loro”? Chi siamo “noi”? L’identità è un problema fondamentale: tutti ci chiediamo chi siamo, chi sono gli altri e perché. Nella società contemporanea assistiamo a un eccesso di identità, a una manipolazione e strumentalizzazione del fattore cultura, a un’adozione di una prospettiva culturalistica, finalizzata a legittimare la realtà sociale nascente: viviamo un periodo storico in cui è ancora attuale parlare di deliri identitari. I richiami alla purezza sono tristemente attuali, oggi, nel 2018, dove in tutta Europa stanno proliferano gruppi e partiti di estrema destra che fanno della purezza identitaria e del migrante nemico numero uno, la loro bandiera. Basti pensare al nuovo governo italiano, che ha fatto dell’esclusione sociale e del “migrante nemico pubblico” le principali parole d’ordine: proprio in questi giorni (Dicembre 2018) è stato varato il nuovo DDL sicurezza, un insieme di leggi che continuano il lungo cammino iniziato dai precedenti governi, dove la parola sicurezza (svuotata completamente dal suo vero significato) viene sbandierata solamente per ricevere consensi, ma dove quello che si legifera serve solamente a creare più marginalità per tutti. Sarebbe corretto rinominare questo provvedimento DDl insicurezza, perché quello che creerà sarà solamente più ingiustizia, più marginalità e aumenterà le file dei nuovi schiavi nel mondo del lavoro sommerso e della criminalità organizzata.
Il governo italiano, in linea con altri sparsi per il globo, insinua richiami alle origini e alla purezza di un popolo-nazione, che sono in realtà proiezioni di un passato mitico usato e manipolato in funzione di bisogni presenti per distrarre le masse dai veri problemi contemporanei. Per fare questo c’è bisogno di identità forti, monolitiche, di un “Noi” e “Loro”, è necessario fomentare il concetto di identità, usato per legittimare differenti forme di violenza, intesa non solo come atto di forza fisica, ma anche come imposizione o classificazione attraverso l’azione politica basata su un rapporto di forza asimmetrico.
Le élite dominanti creano, modellano e utilizzano categorie come tradizione, etnicità, cultura, per perseguire determinati obiettivi politici. Il recupero e l’invenzione di nuove tradizioni serve a giustificare la leadership di queste classi che devono creare un loro campo di dominio, sia esso un’etnia, un popolo, o una nazione. Le identità collettive non si creano con un atto amministrativo, quindi occorre creare un retroterra culturale che renda partecipi le comunità coinvolte.
Nel mondo della globalizzazione sembra che la paura di essere uguali agli altri ci porti a creare tante identità chiuse, ovvero culture serrate da recinti invalicabili. Questo tipo di società diventa un unico grande ghetto sociale nel quale le diverse comunità etniche che lo vivono, indipendentemente dalla loro ricchezza, sono ostili e quindi generano conflitti interni.
Tutto questo sembrerebbe in contraddizione con un’analisi adeguata del mondo contemporaneo, dove i mondi locali si articolano in riferimento a strutture aperte sulla realtà globale, producono forme di immaginazione che si fondano sulla relazione fra ambienti diversi e non solo in riferimento al contesto legato a un’unica dimensione territoriale. È anche nei mondi “nuovi” creati dall’immaginazione che gli individui riformulano le proprie identità e le proprie culture. L’immaginazione consiste nel rappresentare realtà che sono esperite non solo personalmente, ma anche da altri. Nel quotidiano questo consiste nel pensarsi in congiunzione ad altri soggetti aventi lo stesso tipo di immaginario. È in questo scenario che nascono le comunità immaginate, gruppi che non sono più legati a un territorio o a una nazione ma sono creazioni di culture in transito che si ibridano con l’incontro e lo scontro con il “diverso”.
D’altro canto la nascita in questi ultimi anni di svariati gruppi identitari, fondamentalisti, chiusi e fortemente legati al vincolo territoriale, sembrerebbe una risposta al fenomeno del mescolamento culturale. Questi gruppi, infatti, vivono uno spaesamento e quindi acutizzano la voglia di identificare.
Diventa un’ossessione: trovare l’origine pura del gruppo di appartenenza, una lotta di identità, territorio, radici contro l’ibridazione culturale, il meticciamento.
L’identità per l’essere umano è ineliminabile, è la condizione per la comunicazione, per l’evoluzione, per il cambiamento. L’identità però va gestita, diffusa, moltiplicata. In qualsiasi modo cerchiamo di comunicare siamo già coinvolti nella costruzione di identità, individuali e collettive, il nodo principale è cercare di non farle cristallizzare, tenerle con confini aperti pronti con l’incontro di culture “altre”.
Il fatto che le culture siano in movimento rappresenta una costante del modo umano di abitare il mondo: nessuna civiltà è pensabile senza mettere in conto un processo articolato di contatto e compenetrazione tra popoli diversi, avvenuto nel corso dei millenni di migrazioni.
Una cultura non è un blocco omogeneo, bensì un organismo vivente che storicamente interagisce con il suo ambiente, venendo a contatto con altre culture. In questo senso, non si può fare cultura senza tentare di costruire un nesso tra la propria esperienza e quella degli altri. Ciò non significa che questo collegamento sia indolore o che sia sempre possibile: talvolta, può accadere che due culture si mescolino solo entrando in conflitto, oppure può accadere che non si mescolino affatto, forse perché il conflitto è tale da separarle irrimediabilmente.
I migranti del nuovo millennio si possono definire attraverso l’immagine del “tessitore”, cioè colui che per l’appunto vive di legami con coloro che incontra sul suo cammino, praticando ponti e vie tra spazi radicalmente diversi. Donne e uomini che rinegoziano la loro cultura di origine, in altre parole diventano dei meticci. La parola meticcio prende forma nell’ambito della biologia per disegnare gli incroci genetici e la produzione di fenotipi, ossia di fenomeni fisici e cromatici che in realtà serviranno come supporto all’esclusione.
Sulla scia degli studi di F. La Plantine, J.L Amselle e Marc Tibaldi, si può proporre un ribaltamento di questa tipologia del concetto meticcio.
La prima questione posta dal meticciato è quella dello spostamento e dell’estensione di questa nozione al di fuori della disciplina nella quale si è costituita. Il meticciamento non è mai soltanto biologico, è il rifiuto dei valori egemonici dominanti di identità e stabilità. È importante chiarire da un punto di vista terminologico il significato che vogliamo dare alla parola meticciato.
Il meticciato, se malinteso, implicherebbe l’esistenza di due individui originariamente “puri” o, più in generale, di uno stato iniziale (razziale, sociale, culturale, linguistico), di un insieme omogeneo, che a un certo punto avrebbe incontrato un altro insieme, dando così luogo a un fenomeno “impuro” o “eterogeneo”. Il meticciato invece si contrappone alla polarità omogeneo/eterogeneo. Si presenta come una terza via tra la fusione totalizzante dell’omogeneo e la frammentazione differenzialista dell’eterogeneo. Il meticciato è una composizione le cui componenti mantengono la propria integrità. Basti questo a esprimere tutta la sua pertinenza politica nei dibattiti sociali odierni (razzismo, integrazione, nazionalità ecc.).
Il meticciato non è una fusione, coesione o un osmosi. È un confronto fra tanti, è il dialogo. Da sempre la storia umana è fatta di mescolanze, di culture che migrano e rimangono costantemente in viaggio. La storia del Mediterraneo è un crogiolo culturale, è la storia di parecchi millenni di migrazioni, sotto forma di invasioni, conquiste, scontri, persecuzioni, massacri, saccheggi e deportazioni, ma anche di scambi, confronti, trasformazioni reciproche di popoli, persino durante i conflitti. Il futuro sarà inevitabilmente sempre più meticcio, inutile avere paura di questa evoluzione. Se proprio deve esserci uno straniero, questo deve essere la concezione stessa del razzismo e dell’esclusione.