Ricercatore Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

La chiusura delle scuole avvenuta a fine febbraio ha prodotto un autentico terremoto che ha costretto insegnanti e alunni a cambiare in poco tempo le proprie abitudini. Questo sconvolgimento inaspettato del mondo educativo avrebbe dovuto generare una discussione seria e profonda sui nostri sistemi formativi. Invece, mentre le modalità tradizionali di fare lezione nei diversi gradi d’istruzione venivano destrutturate e ristrutturate, si sono sì alterate alcune pratiche tradizionali e consolidate, ma non si è prodotta una riflessione sistematica su un rinnovamento scolastico che da diversi anni è avvertito come un bisogno e che oramai non è più rinviabile.

In settembre la scuola riaprirà e i singoli istituti stanno in queste settimane tentando di capire quali saranno tempi e modalità di fare lezione. A giudicare però dalle prime linee guida e dalle indicazioni ministeriali, più o meno ufficiali, emerge l’immagine di un sistema in forte difficoltà a ripensarsi, ad andare oltre le specifiche rimodulazioni organizzative utili a consentire distanziamento e sicurezza. Quella che poteva (e forse può ancora) essere l’occasione per una trasformazione dei modi di fare scuola, sul piano della didattica, delle relazioni e dei linguaggi, rischia di venir affrontata come una semplice emergenza logistica. È invece l’occasione per immaginare una scuola diversa che a partire dalle storture rilevate nella tradizione sappia innovarsi in favore di una maggiore emancipazione.

A questo proposito si presenta l’opportunità per ragionare intorno ai modi e alle forme attuali di fare educazione all’interno della scuola, per avanzare poi alcune ipotesi di riforma e riorganizzazione.

Innanzitutto occorre riconoscere che la scuola italiana si presenta oggi separata, scissa, avulsa dal contesto esterno. Essa dà vita ad un sistema concentrazionario, ove bambini e ragazzi sono supposti trascorrere il loro tempo in spazi chiusi e delimitati. Gli adulti hanno ideato la scuola come esperienza simulata e inautentica e perciò povera; hanno creato condizioni di iper-protezione, finendo per segregare la gioventù. Così bambini e ragazzi sono scomparsi dalla vita all’aperto nelle città e conducono un’esistenza che ruota attorno all’edificio scolastico. Ma il tipo di apprendimento che si produce all’interno del contesto scuola, e in generale di ambienti iper-protetti, è un apprendimento monco, dimidiato, e per questo fallace. Al contrario, è bene che i giovani facciano esperienze di realtà, possano vivere lo spazio pubblico in modo libero e per fare ciò occorre aprire le mura scolastiche e garantire un autentico diritto alla città per l’infanzia e l’adolescenza. Il territorio può e deve tornare ad essere luogo di esperienza e apprendimento concreti – e va progettato di conseguenza.

“Una scuola in cui la vita si annoia educa solo alle barbarie”, scriveva Raoul Vaneigem.

Per operare dunque una trasformazione del sistema d’istruzione in un’ottica emancipatoria, ove le esperienze scolastiche siano esperienze autentiche, reali e per ciò stesso stimolanti e arricchenti, occorre una rivoluzione su tre diversi e interconnessi piani: spazio, tempo e relazioni educative. Solo un cambiamento su questi fronti consentirebbe di ridisegnare la scuola e mettere davvero al centro il benessere e l’apprendimento autentico dei ragazzi.

Sul piano dello spazio, occorre estendere i confini ben oltre lo spazio fisico dell’edificio scuola. In questo senso risulta più opportuno parlare di «spazio pedagogico», ossia di tutti i luoghi che consento di fare esperienza di fenomeni o di fare uso dei saperi. Lo spazio scolastico nell’immaginario collettivo è lo spazio fisico contenitore di studenti in presenza, mentre parlando di spazio dell’apprendimento rimandiamo a qualcosa di molto più ampio che non solo abbraccia anche il digitale in un’ottica di apprendimento blended, ma sancisce una continuità tra scuola e società. La sfida è quella di ricucire scuola e territorio, in due sensi: da una parte portare la scuola e i ragazzi sul territorio e dall’altra far entrare il territorio nella scuola. In questa logica si tratterebbe di “fare uscire” sistematicamente i ragazzi per occasioni di apprendimento diffuso fuori dalle mura scolastiche e d’altro canto di fare dell’edificio scuola un hub polifunzionale per diverse attività offerte a tutta la cittadinanza nelle diverse ore della giornata. Per progettare questa apertura al territorio, un riferimento obbligato è ai moltissimi spunti contenuti nella proposta di Francesco Tonucci relativa alla Città dei bambini. Tra le altre cose, occorre mettere in rete diversi artigiani, associazioni, commercianti, residenti, e via dicendo per dare vita ad un’educazione “sconfinata” ove siano realizzate e valorizzate esperienze concrete come lavorare il pane, il legno ed altre occasioni di simile natura formativa.

Per quanto riguarda il tempo, occorre dire che esso è spesso concepito come tempo scuola e non come tempo dell’apprendimento. Questo crea una riduzione e un appiattimento sulle “ore” della giornata scolastica. Invece, nella realtà, le metodologie didattiche non frontali, come il cooperativismo e l’approccio fenomenologico, hanno bisogno di tempi distesi. L’esposizione al sapere richiede infatti tempo ed elaborazione a cui deve seguire una messa in discussione dialogica che consente di appropriarsi davvero del sapere. Provocando domande, ipotesi, ragionamento, avviene un processo di appropriazione che garantisce una persistenza del sapere maggiore rispetto all’interrogazione mnemonica. Emerge con evidenza come occorrano soluzioni e vie diverse ai problemi e ciò richiede quindi di “liberare gli orari” in una condizione di autonomia scolastica nella quale sia possibile assecondare i tempi necessari ai singoli casi e ai diversi apprendimenti.

Da un punto di vista della didattica, poi, bisogna riconcettualizzare ruolo e funzione dell’Insegnante, da concepire non come unico portatore di sapere ma piuttosto come mentore che ascolta e stimola il pensiero degli studenti cercando di capire volta per volta cosa fare per incentivare, catalizzare, risvegliare le sensibilità specifiche; anziché valutare ossessivamente, serve ragionare con i ragazzi, per superare l’unidirezionalità tradizionale (del libro, dell’insegnante, delle fonti) e accedere invece ad una dimensione collettiva di pensiero (che è tradizionalmente demandato allo studio a casa e in solitudine).

Così, attraverso il lavoro in gruppo, sarà possibile introdurre forme di apprendimento cooperativo. Grazie alla moltiplicazione degli spazi didattici, invece, si intende promuovere forme di apprendimento attraverso i fenomeni e l’esperienza pratica. Ancora, è possibile superare una concezione rigida della cultura come sapere da trasmettere, per promuovere modelli critici di problematizzazione e soluzione, in una logica di inquiry, ricerca e stimolo al pensiero complesso.

Grande importanza storica hanno avuto e continuano ad avere i cerchi di parola con circolo libero e semi-strutturato di discussione. In questo senso diventa fondamentale fare spazio alle domande dei ragazzi che hanno quesiti e punti di vista troppo spesso inascoltati. Forme di brainstorm, pensiero libero e discussione sono modalità possibili di liberare il pensiero in un’ottica di attivazione. Sempre in questa logica di valorizzazione dello studente e delle sue inclinazioni, emerge l’importanza di coltivare il pensiero divergente, ossia la capacità di produrre soluzioni alternative in riferimento ad una data questione, ribaltando la logica della soluzione corretta e della valutazione secondo giusto e sbagliato.

A tale proposito occorre rilevare come il fenomeno della diminuzione della creatività si può rilevare con il variare dell’età: in un campione di 1500 bambini tra i 3 e i 5 anni il 98% risulta ‘genio’ nel pensiero divergente, nei bambini tra gli 8 e 10 anni tale status viene attribuito al 34% mentre tra i 13 e 15 anni solo al 10%. Inoltre, in un test di controllo con 2000 soggetti dai 25 anni in su, solo il 2% può essere classificato come ‘genio’ nel pensiero divergente.

Per cambiare la scuola sarà dunque utile abbracciare quanti più linguaggi, strumenti e approcci possibile, per rispondere alla pluralità delle intelligenze degli alunni e riattivare la loro curiosità e creatività. Solo così è possibile avere rispetto dei diversi modi di apprendere, essere, esistere.

Fino ad ora, il problema del modello segregazionista della scuola chiusa ha costituito un vero e proprio rimosso del discorso sulla scuola ma non è più possibile eludere il bisogno urgente di progettare un sistema d’istruzione che faccia della scuola una cornice di senso per le esperienze formali, informali e non formali vissute nella realtà “esterna”. La sfida è dunque quella di privilegiare l’esperienza nel mondo reale per rientrare, al bisogno, in uno spazio riflessivo di rielaborazione dell’esperienza fatta fuori. Il tempo scuola sarebbe dunque da trascorrere essenzialmente all’esterno, con didattica diffusa, attiva, cooperativa, fenomenologica. Compiti di realtà, attività di servizio, agentività nel terzo spazio: sono queste alcune delle formule che consentono di riaprire e rivitalizzare le scuole.

Oggi la priorità è dare centralità all’infanzia e all’adolescenza, accogliendo le domande vitali che arrivano dai ragazzi stessi. L’apprendimento esperienziale interroga la società adulta rispetto al ruolo da attribuire alla gioventù. Vogliamo riaccogliere i ragazzi nello spazio pubblico? Siamo in grado di ripensare l’educazione prima ancora della scuola? L’educazione diffusa, itinerante, sconfinata, senza mura, è lo strumento per restituire ai giovani cittadinanza nel mondo. Mettiamo i ragazzi al centro, liberi di girare, vivere e trasformare le città: ne guadagneremo tutti.

 

Sintesi delle proposte attuative:

  • Destrutturare e ristrutturare l’attuale sistema-scuola, superando il modello concentrazionario e disciplinare della scuola chiusa, frontale, simulata;

  • Aprire l’aula tradizionale, concependo lo spazio di apprendimento come spazio ampio dell’esperienza vitale; desegregare l’esperienza educativa e ammettere che l’educazione avvenga in maniera diffusa su tutto il territorio

  • Fare della scuola un hub polifunzionale di territorio, attribuendo all’edificio scolastico nuovi usi per attività extra-scolastiche negli spazi a disposizione, con un’apertura a tutta la cittadinanza;

  • Implementare la didattica modulare oltre la lezione frontale, privilegiando attività di ricerca, problematizzazione e dialogo; puntare sull’agentività nel mondo, secondo il modello del terzo spazio, dei compiti autentici, del service learning;

  • Abilitare il maggior numero di linguaggi, approcci e strumenti possibili per assecondare le diverse intelligenze specifiche;

  • coltivare, con proposte formative mirate rivolte sia ai bambini che agli insegnanti, ai dirigenti e ai genitori, il pensiero divergente, inteso come processo intellettuale flessibile e aperto che si manifesta in una ricchezza ideativa, una sensibilità alla comprensione di problemi e un’elasticità nel ristrutturarli per elaborare soluzioni utili

  • Potenziare l’autonomia didattica che consente di assecondare le esigenze specifiche del gruppo classe sia rimodulando il tempo a disposizione che adeguando le attività formative;

  • Aumentare il personale, docente e non docente, per consentire maggiore personalizzazione educativa, maggiore attenzione alle specificità di ciascuno, lavorando in gruppi più piccoli e organizzati

  • Investire sulle risorse umane per formazione costante al corpo docente e per la rigenerazione degli insegnanti come persone cui si riconosce un mestiere relazionale complesso e faticoso

  • Investire non solo economicamente ma anche culturalmente nella scuola: progettare una strategia corale al di là della frammentazione settoriale

  • Potenziare lo sviluppo di dinamiche virtuose di rete, networking e confronto su scala nazionale e internazionale per supportare e promuovere lo scambio di idee e l’innesco di processi di innovazione

  • Avviare una costituente per definire quale sapere sia adeguato alle sfide della contemporaneità e della globalizzazione

 

Si ringraziano i partecipanti intervenuti:

  • Marianna Brescacin, Altisensi
  • Annabella Coiro, E tu da che parte stai?
  • Girolamo De Michele, insegnante
  • Ivano Gamelli, Università Bicocca
  • Monica Guerra, Università Bicocca
  • Federica Lucchesini, Insegnante MCE
  • Elena Mosa, INDIRE
  • Paolo Mottana, Università Bicocca
  • Elisabetta Mughini, INDIRE
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