Nell’aprile 2018 l’ex segretario di stato durante la seconda presidenza Clinton, Madeleine Albrigh, pubblicava un volume – ora disponibile anche in italiano – intitolato Fascism: a warning scritto da un’esponente politica di primo piano. Albright riflette con preoccupazione sull’evoluzione politica americana da una prospettiva che è certo immersa nel contesto politico americano di oggi, ma che al tempo stesso si rifà ad un passato vissuto e sofferto in prima persona.
Albright è consapevole del fatto che la storia non si ripete, e lo ribadisce nel suo scritto, tuttavia sceglie di porre al centro del dibattito pubblico il riemergere del fascismo per sottolineare la familiarità tra “le idee diffuse nella destra estrema dell’inizio del 20mo secolo e i suoi imitatori oggi”. Questo le permette di registrare l’adesione di una parte consistente del mondo moderato americano a prospettive d’azione politica illiberali e autoritarie, sottovalutando l’importanza delle trasformazioni politiche e istituzionali avviate dal governo Trump. Al tempo stesso, Albright sottolinea l’esistenza di parallelismi tra passato e presente nella possibilità che si è aperta di sfruttare l’insoddisfazione per le istituzioni, per la situazione economica e sociale di oggi, promettendo un futuro irrealizzabile, ma che viene dipinto come possibile a patto di distruggere i vincoli istituzionali, ideologici e politici presenti a tutela delle diverse democrazie europee dell’inizio del xxi secolo. Albright non teme, almeno per l’occidente, una nuova guerra mondiale “ma una vita pubblica avvelenata, una democrazia ridotta a piccole maggioranze che trovano soddisfazione in una retorica violenta e risentita, mentre i loro leader cancellano i loro diritti e perseguono i loro vicini”.
Albright non è la prima, negli Stati Uniti, a denunciare la possibilità di una comparazione e di una assimilazione tra le politiche e i linguaggi del presidente Trump e dei nuovi leader della destra populista occidentale e il fascismo. Non più di tre anni fa, nel pieno di una campagna elettorale accesissima, il neoconservatore Robert Kagan lasciava il partito repubblicano per sostenere la candidata democratica Hillary Clinton, e pubblicava, qualche mese dopo, un articolo sul “Washington Post” intitolato This is how fascism comes to America. Kagan sottolineava – non diversamente da Albright – come in una democrazia, spingere la popolazione verso la rabbia e l’eccitazione possa anche portare alla distruzione, con il consenso, dei vincoli istituzionali creati proprio per difenderne la libertà. L’ex repubblicano sottolineava inoltre che la spinta prodotta da Trump verso un processo di questo tipo non era isolata. Seguiva un dibattito intenso nella stampa americana, in cui si confrontavano politici ed esperti di fascismo, intorno all’opportunità di utilizzare la categoria di fascismo per descrivere la situazione politica americana.
L’ascesa di Trump al potere non costituisce certo il primo momento in cui nel dibattito pubblico americano si è fatto ricorso al fascismo per denunciare il retroterra ideologico e le pratiche politiche di esponenti politici conservatori americani. Più di dieci anni fa, nel pieno di un’altra presidenza repubblicana, una delle ex consigliere politiche di Bill Clinton e Al Gore, Naomi Wolf, anticipava nell’edizione americana del “Guardian” alcuni punti principali di un libro, The End Of America. Wolf segnalava i parallelismi esistenti tra l’avvento al potere di Hitler e Mussolini e la crisi delle istituzioni democratiche americane e mostrava come, con un numero limitato di trasformazioni del quadro politico-istituzionale, queste istituzioni potessero trasformarsi in istituzioni autoritarie. Wolf denunciava anche che questa trasformazione era in corso negli Stati Uniti di G.W. Bush, e che l’emergere dell’autoritarismo, lungi dal manifestarsi chiaramente, si verificava come un processo continuo di erosione dei vincoli che evitavano ‘l’accumulazione di tutti i poteri, legislativo, esecutivo, e giudiziario nelle stesse mani’.
Immagine di Karla Ann Cote
Altri potrebbero spiegare con maggiore efficacia perché il fascismo sia diventata una categoria politica così evocativa per una parte del mondo politico democratico per denunciare la deriva della politica americana recente. A me questi pochi spunti sembrano interessanti anche per un dibattito che si sta sviluppando in relazione al contesto politico italiano.
Innanzitutto questo dibattito indica che il ricorso al fascismo per descrivere la crisi delle istituzioni democratiche e liberali non può essere derubricato soltanto come l’ultimo sussulto dell’antiquata sinistra radicale e antifascista italiana, e che la riflessione sulla crisi e sulle analogie con il fascismo è se non altro una preoccupazione più trasversale e ampia, presente anche in altri contesti del mondo occidentale e che emerge all’interno di aree culturali e politiche diverse, e non necessariamente compatibili tra loro. Aree culturali e politiche che forse sono a corto di categorie analitiche, ma che certo pongono il problema di mettere a fuoco l’attuale crisi delle istituzioni liberali e democratiche e la spinta verso modelli di governo di tipo autoritario.
In secondo luogo, questo dibattito ci dimostra che il discorso sul fascismo ha oggi una sua forza evocativa per tradizioni culturali e politiche diverse, in contesti che hanno conosciuto un uso pubblico molto articolato sul fascismo dal 1945 ad oggi. Questa categoria è quindi ritenuta utile per spiegare alcuni meccanismi della politica contemporanea, da attori che non sono certo così ingenui dal pensare che la politica, le istituzioni, l’economia o la società abbiano la stessa forma che avevano negli anni venti o negli anni trenta.
In terzo luogo ci invita a riflettere sul fatto che, con buona pace degli storici, un conto è l’utilizzo di questo termine in ambito scientifico e storiografico, un altro è l’utilizzo di questo termine nell’arena politica. Nella definizione di perché il ricorso al fascismo possa apparire evocativo o utile, gli storici – anche se ripetutamente convocati ad esprimere la loro opinione anche dalla stampa americana – hanno un ruolo per lo più residuale e spesso ingenuo, quando si limitano ad affermare le differenze, reali e tangibili, tra il passato e il presente, per ribadire un’incomunicabilità tra questi due momenti.
A me sembra che alimentare l’alterità totale del passato rispetto al presente implica anche condannare la storiografia e la storia alla marginalità nella riflessione sul presente e sul futuro: non sarebbe più interessante chiedersi invece che significato ha e cosa implica questa necessità di guardare indietro per spiegare quanto sta accadendo?
Parlare di fascismo ha chiaramente a che fare con molte cose tra le quali la necessità di mettere in evidenza la crisi delle istituzioni liberal democratiche, la perdita del consenso popolare delle democrazie, la spinta verso forme istituzionali e politiche sempre più autoritarie, con il ricorso evidente alla demonizzazione dell’altro come chiave di costruzione del consenso. Furono queste caratteristiche che accompagnarono la nascita del fascismo? Mi pare evidente che lo furono, anche se queste istanze nascevano da contesti sociali, politici ed economici molto diversi dal passato. L’analisi del passato ci può aiutare a riflettere a capire e leggere il presente? E quali strumenti gli storici possono mettere a disposizione di intellettuali pubblici, politici e analisti per ragionare su questi problemi? Non sarà certo richiudendoci nella cittadella di chi difende le specificità di un tempo e di un concetto che gli storici potranno alimentare un discorso critico articolato sulla società, il suo passato e il suo futuro e ricostruire quel legame tra storia e pensiero politico e storia e pensiero critico così importante per alimentare una cittadinanza attiva e consapevole. Questo ovviamente non significa accettare qualsiasi comparazione tra passato e presente, non enfatizzare le differenze, anche notevoli, esistenti tra le due realtà, ma cogliere anche la necessità di confrontarsi con il passato che la crisi che stiamo vivendo impone e accettare la sfida di fare dialogare, in modo critico, le domande di ieri con quelle che il nostro presente ci impone, perché non c’è dubbio che la crisi che ha attraversato l’Europa negli anni venti e negli anni trenta può, se letta criticamente, aiutarci anche a fare i conti con la crisi che stiamo vivendo.