L’articolo fa parte della Rassegna A cinquant’anni dallo sciopero nazionale per il diritto alla casa
Dalla fine della Seconda guerra mondiale e per diversi decenni le principali città italiane soffrirono di una costante carenza di alloggi. Tra i più penalizzati vi furono soprattutto i ceti popolari, che faticarono a ottenere una casa decorosa e dotata dei servizi di base. Le politiche pubbliche nel settore e l’iniziativa privata (in particolare il mercato della locazione) non riuscirono per molti anni a modificare la situazione: interi settori della società vissero a lungo in condizioni abitative precarie, inadatte, improprie, prima a causa dei problemi legati alla ricostruzione delle città bombardate, poi per il permanere di tradizionali forme di disagio abitativo, infine in seguito al nuovo fabbisogno di alloggi alimentato dalla pressione demografica esercitata dai flussi migratori sui principali centri urbani. Il documentario La casa in Italia di Liliana Cavani, trasmesso dalla Rai nel 1964, testimonia ancora oggi i contesti abitativi degli italiani, in città come in campagna, al Nord come al Sud, in centro come in periferia, in un Paese che si stava rapidamente trasformando.
Fu in risposta a questo tipo di disagio avvertito da migliaia di famiglie che Cgil, Cisl e Uil proclamarono per il 19 novembre 1969 lo sciopero nazionale per il diritto alla casa. La mobilitazione nelle varie città fu impressionante, a dimostrazione della rilevanza del problema, anche se i noti e drammatici fatti milanesi offuscarono parzialmente la portata dello sciopero nell’opinione pubblica. In tutti i grandi centri sfilarono cortei dietro striscioni e cartelli che denunciavano l’elevato costo degli affitti, la presenza di baracche, la debolezza delle politiche pubbliche della casa. Gli obiettivi furono sintetizzati nei tanti volantini distribuiti per l’occasione: vi era naturalmente una critica al governo, la cui azione era ritenuta insufficiente, e si chiedevano con forza il blocco degli affitti e dei contratti di locazione per tre anni, equi canone di affitto e controllo dei contratti di locazione e un programma straordinario di edilizia pubblica.
Documento sullo Sciopero nazionale per il diritto alla casa (1969) tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
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Tali richieste non furono però improvvise: esse presero forma in oltre un decennio di storia dei tanti movimenti per la casa attivi per lo più nelle periferie urbane e animati da gruppi spontanei, comitati di inquilini e di quartiere che, via via che il tempo passava, sindacati e partiti iniziarono ad ascoltare e con cui cercarono di collaborare. Non fu un caso, dunque, se nei giorni precedenti lo sciopero nazionale la sua organizzazione fu sostenuta casa per casa, quartiere per quartiere, piazza per piazza, caseggiato per caseggiato da questa miriade di gruppi urbani: ciò assicurò alle manifestazioni l’ampia partecipazione che ebbero. L’azione unitaria dei tre più grandi e rappresentativi sindacati italiani, preceduta in molte aree da scioperi provinciali proclamati tra la tarda primavera e l’inizio dell’autunno, trovò in quell’occasione nei comitati distribuiti in modo capillare nei borghi popolari un alleato determinante, indispensabile per assicurare continuità alle lotte per il diritto alla casa, che non si arrestarono e che ottennero diversi risultati negli anni seguenti.
Unione Inquilini. Documento sullo Sciopero nazionale per il diritto alla casa (1969) tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
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Possiamo valutare gli effetti dello sciopero e della storia del movimento per la casa entro cui esso deve essere considerato su differenti livelli. Dal punto di vista normativo, gli anni Settanta si aprirono con un importante atto legislativo in materia di edilizia, al quale ne seguirono poi altri: l’approvazione della legge n. 865 del 1971, Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica. Essa introdusse nell’ordinamento italiano alcuni mutamenti fondamentali: operò una razionalizzazione dei soggetti pubblici del settore; attribuì un ruolo centrale agli Iacp; programmò un piano triennale di finanziamento per l’edilizia pubblica quasi totalmente in locazione; estese la possibilità di esproprio anche alle zone già edificate per esigenze di risanamento e modificò le regole dell’indennizzo; disciplinò la nuova composizione dei consigli di amministrazione degli Iacp, nei quali entrarono i rappresentanti degli assegnatari di alloggi di edilizia pubblica. In alcuni contesti locali, l’idea della partecipazione degli inquilini all’amministrazione degli enti fu interpretata in modo molto più estensivo proprio grazie alla presenza dei combattivi comitati inquilini: a Torino, per esempio, nella seconda metà del decennio furono avviate le autogestioni dei servizi (riscaldamento, manutenzioni, ecc.), un’esperienza unica di conduzione del patrimonio immobiliare pubblico.
Ma ci furono anche effetti indiretti della mobilitazione dell’autunno del 1969. Tra questi, uno in particolare: la centralità della questione abitativa imposta dalle battaglie sindacali e dalle lotte dal basso si legò a un movimento più ampio che, proprio in quegli anni, iniziò a rivendicare la necessità di governo democratico più ampio e partecipato della città e che ebbe tra i suoi principali effetti il decentramento urbano e la nascita dei consigli di quartiere.