Università degli Studi di Torino

Quando si parla di partiti politici non servono dati di ricerca particolarmente sofisticati a certificare quello che già il senso comune restituisce in maniera piuttosto efficace:

i partiti politici sono interpretati come organizzazioni superate, del tutto incapaci di restituire risposte alle istanze che giungono dalla società (Ignazi 2021). Anzi, a voler essere precisi più che di incapacità si parla di colpevole insipienza.

I partiti politici sono certamente diversi dall’idealtipo che ci siamo abituati a rimpiangere e che un tempo rappresentavano il perno funzionale attorno a cui si muovevano i processi di rappresentanza politica. Eppure, ostinatamente conservano una certa resilienza. Nei parlamenti i partiti politici continuano – nonostante tutto – a esercitare un ruolo centrale. Anzi, una volta giunte in parlamento, anche quelle formazioni politiche che rifiuta(va)no l’etichetta di partito sono costrette a ripensarsi e ristrutturarsi proprio in forma partitica. Il Movimento 5 Stelle è un caso eloquente in questo frangente. I partiti dunque esistono e resistono. Semmai, a essere stata sacrificata è stata la dimensione partecipativa, ossia quella che riguardava la relazione fra l’organizzazione e i suoi affiliati. Sezioni, circoli, sedi locali che erano i luoghi della discussione e della partecipazione sono sempre più vuoti. Da un lato, mancano gli iscritti ad animare questi spazi – e in ogni caso quelli che hanno conservato la tessera sono meno solerti e attivi (Van Haute & Gauja 2015). Dall’altro lato, le riforme sul finanziamento pubblico ai partiti hanno determinato un drastico taglio di risorse che impedisce di sostenere l’organizzazione nella sua capillare struttura territoriale (Piccio 2020). In questo contesto, i partiti negli anni hanno elaborato strategie differenti. Visto che il punto debole si rintraccia esattamente nella dimensione partecipativa sono proprio gli strumenti che enfatizzano il ruolo di iscritti e simpatizzanti ad aver rappresentato gli elementi di innovazione organizzativa più frequentemente utilizzati dai partiti politici.

In tempi recenti – e il caso italiano in questo senso si configura come un interessante laboratorio – si sono moltiplicate iniziative di (cosiddetta) intra-party democracy. Ne sono un esempio le elezioni primarie per la scelta di candidati e leader di partito o il coinvolgimento diretto e attivo di militanti o anche simpatizzanti in processi decisionali relativi a issues, policies o anche solo simboli e loghi di partito. Trasparenza, democratizzazione, partecipazione, inclusione sono le parole d’ordine. Anche se – occorre segnalarlo – talvolta si è trattato più di enfasi retorica che non di un sostanziale ed effettivo impatto sulle scelte di partito. La letteratura sul tema ha sempre sollevato non pochi dubbi sul reale impatto di queste procedure ‘inclusive’ e soprattutto sulla loro capacità di innescare meccanismi virtuosi di rigenerazione organizzativa (Ignazi 2020). Effettivamente, al di là degli exploit partecipativi mancano studi più approfonditi sull’impatto di lungo periodo di queste procedure. Resta da comprendere, insomma, se e come queste occasioni di inclusività estemporanea riescano a sedimentare nel tempo e produrre una partecipazione di più lungo periodo e magari di maggiore sostanza.

Le tecnologie digitali sono un’altra frontiera su cui i partiti politici stanno operando un grande investimento organizzativo. Gerbaudo (2018) ha utilizzato il termine partiti digitali per circoscrivere quelle esperienze di natura partitica che nascono e si sviluppano sullo spazio digitale. Sono i Pirate Party, o i casi più eclatanti di Podemos e del Movimento 5 Stelle che hanno fatto del digitale la loro specificità organizzativa (Gerbaudo 2019). L’assenza di una struttura organizzativa offline e calata sui territori è compensata dalle tecnologie digitali che diventano spazio e strumento di partecipazione. La natura del partito si fonda su uno spirito partecipativo di natura orizzontale. Questo è almeno il senso e l’obiettivo delle piattaforme digitali che divengono l’ambiente in cui gli iscritti – nelle varie e diverse declinazioni di multi-speed membership (Scarrow 2014) – possono intervenire per dire la loro in merito a policy, candidature, strategie, alleanze etc. Certo, alla prova dei fatti questa propensione all’inclusione in uno spazio digitale sembra risolversi più facilmente in pratiche di natura plebiscitaria, rafforzando dinamiche di personalizzazione e centralizzazione delle decisioni più che una loro condivisione (Gerbaudo 2019). Detto questo, è utile segnalare che le tecnologie digitali – con i loro strumenti e le loro logiche – sono ormai entrate a far parte delle prassi organizzative anche dei partiti più tradizionali (Gibson & Ward 2009).

La crescente rilevanza della dimensione digitale emerge nei modelli e approcci comunicativi adottati dai partiti politici (Gibson et al. 2014; Römmele & Gibson 2020). I social media sono diventati l’ambiente comunicativo per eccellenza (e non solo per i partiti politici e i loro leader). Lo spazio social, infatti, consente di massimizzare la visibilità e la pervasività del messaggio politico ma soprattutto consente un’interazione diretta con militanti e simpatizzanti (Koc-Michalska et al. 2021). La disintermediazione trova nei social media dunque piena realizzazione. Non solo, infatti accanto alla dimensione comunicativa le tecnologie digitali contribuiscono a una ridefinizione più prettamente organizzativa: anche i partiti tradizionali si dotano di piattaforme online che offrono servizi e funzionalità dedicati alla membership, o arene di discussione aperte alla partecipazione dei militanti. Il digitale allarga lo spazio della partecipazione e in qualche misura ne dilata tempi e modalità. Ci sono però degli interrogativi che per il momento restano irrisolti. Chiaramente, laddove mancano le strutture organizzative offline (le sezioni per intenderci) come nel caso dei partiti nativi-digitali la partecipazione assume una valenza totalmente digitale. Ma in quei partiti tradizionali che stanno lavorando a un’integrazione di strumenti digitali all’interno di schemi e processi tradizionali la questione è più spinosa. Per esempio, non è interamente chiaro se effettivamente la qualità partecipativa online corrisponda a un analogo impegno offline (Dommett et al. 2021; Gibson et al. 2017). Non solo, alcuni studi recenti segnalano che questa innovazione tecnologica da un punto di vista organizzativo richiede competenze spesso esterne al partito. E in termini pratici questo si traduce facilmente in una esternalizzazione dei servizi, un aumento dei costi e implica dunque una perdita di controllo sui processi (Dommett et al. 2020).

Insomma, dietro l’idea di orizzontalità, trasparenza, partecipazione e democratizzazione anche lo strumento digitale rivela qualche criticità. I processi di digitalizzazione delle organizzazioni partitiche sono già in moto, e stanno già ridefinendo la natura delle relazioni interne ai partiti o delle loro architetture organizzative. La pandemia da COVID-19 ha chiuso piazze e quindi manifestazioni, contribuendo ad accelerare i processi di integrazione digitale nelle routine organizzative. La partecipazione online si configura come una possibilità a basso impegno, tutto sommato economica in termini di costi materiali ed immateriali. Il punto è che rischia di essere un surrogato (piuttosto cheap) della partecipazione interna ai partiti. Dove partecipazione non è solo espressione individuale di un voto per un candidato, per un leader o di una posizione su una policy, ma semmai è il frutto di un’interazione e di un confronto collettivo. Il digitale, dunque, può essere uno strumento prezioso. A patto però di governare saggiamente la sua integrazione in processi partecipativi tradizionali.


Bibliografia

Dommett, K., Kefford, G., & Power, S. (2020). The digital ecosystem: The new politics of party organization in parliamentary democracies. Party Politics, 1354068820907667.

Dommett, K., Temple, L., & Seyd, P. (2021). Dynamics of Intra-Party Organisation in the Digital Age: A Grassroots Analysis of Digital Adoption. Parliamentary Affairs74(2), 378-397.

Gerbaudo, P. (2018). The digital party: Political organisation in the era of social media. London: Pluto Press.

Gerbaudo, P. (2019). Are digital parties more democratic than traditional parties? Evaluating Podemos and Movimento 5 Stelle’s online decision-making platforms. Party Politics, 27(4), 730–742.

Gibson, R., & Ward, S. (2009). Parties in the digital age—a review article. Representation45(1), 87-100.

Gibson, R., Greffet, F., & Cantijoch, M. (2017). Friend or foe? Digital technologies and the changing nature of party membership. Political Communication34(1), 89-111.

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Ignazi, P. (2020). The four knights of intra-party democracy: A rescue for party delegitimation. Party Politics26(1), 9-20.

Ignazi, P. (2021). La sfida impossibile. I partiti di fronte alla crisi di legittimazione. Ragion pratica, (1), 37-56.

Koc-Michalska, K., Lilleker, D. G., Michalski, T., Gibson, R., & Zajac, J. M. (2020). Facebook affordances and citizen engagement during elections: European political parties and their benefit from online strategies?. Journal of Information Technology & Politics, 18(2), 1-14.

Piccio, D. R. (2020). Party funding in Italy: organizational models, empirical evidence and party self-delegitimation. Contemporary Italian Politics12(4), 461-475.

Römmele, A., & Gibson, R. (2020). Scientific and subversive: The two faces of the fourth era of political campaigning. New Media & Society22(4), 595-610.

Scarrow, S. (2014). Beyond party members: Changing approaches to partisan mobilization. Oxford: Oxford University Press.

Van Haute, E., & Gauja, A. (Eds.). (2015). Party members and activists. London: Routledge.


Foto di camilo jimenez su Unsplash.

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