Traduzione di Rosa Fioravante
Di seguito, viene proposto un estratto dall’intervento di Geoff Eley alla Kaplan Memorial Lecture del 26 Marzo 2014 presso l’Università della Pennsylvania: “Cosa sta succedendo nella Nuova Storia del Capitalismo?” [“What’s Up with the New History of Capitalism?].
Eley pone una serie di interrogativi sulla storia di lungo periodo del capitalismo (e delle organizzazioni sociali che produce) che possono disegnare nuove ipotesi di ricerca e favorire l’adozione di uno sguardo nuovo sulle contraddizioni e sui conflitti che agitano le società contemporanee.
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Da dove proviene il nuovo interesse per la “storia del capitalismo”? La crisi finanziaria del 2008-9 ha chiaramente posto alcune questioni di storicizzazione in agenda. Se l’accelerazione e l’apparentemente irrefrenabile corsa verso l’appiattimento del pianeta, attraverso un processo di globalizzazione neoliberista dai primi anni ’90, non ci ha davvero portati permanentemente alla scoperta e alla auto-riproduzione del presente neoliberista, ma piuttosto ha occasionato seri problemi strutturali, allora come storicizziamo il tempo presente? Cioè, come comprendiamo la crisi contemporanea del capitalismo, in tutte le sue ramificazioni politiche e sociali, in relazione ai processi di lungo periodo di ristrutturazione capitalistica e le loro logiche di sviluppo e difficoltà, e come collochiamo la storia del presente in una scala più ampia di periodi e congiunture?
Un passaggio storiografico importante sono state le guerre culturali degli ultimi anni ‘80 e anni ‘90. I miei stessi contributi in quel senso hanno sostenuto la necessità di recuperare alcune importanti basi della svolta culturale. Il mio mantra è stato “non c’è bisogno di scegliere!”. Questo smentisce la narrativa presentata nell’articolo del New York Times che annunciava la rinnovata popolarità della storia del capitalismo. Infatti, porre la “storia dal basso” contro le storie “dei boss, dei banchieri e degli speculatori che governano l’economia” è invocare un’antinomia falsa […]
“Storia dal basso” ha raramente significato un focus empirico esclusivo “su donne, minoranze e altri marginalizzati che assumono il controllo del loro destino”. Piuttosto, quegli interessi e impegni sono stati per molto tempo astratti in una serie di regole concettuali e protocolli, metodologie e approcci teoretici, questioni e campi ecc. che hanno consentito alla maggioranza delle domande analitiche di esser ridotte alla base, incluse quelle sulla storia del capitalismo.
Voglio anche menzionare che il movimento di Occupy Wall Street e l’ampliarsi degli estremi della diseguaglianza sociale all’interno della maggior parte delle società capitalistiche stanno certamente avendo effetti significativi su come gli storici ragionano e possiamo aspettarci di vederli materializzarsi in progetti e dibattiti in cinque-sei anni […] Tuttavia, per i fini di questo dibattito mi limito a menzionare i due seguenti fenomeni connessi: le nuove basi della formazione della classe lavoratrice nelle trasformazioni neoliberali degli ultimi tre decenni, insieme alle nuove forme di mobilitazione politica che queste stanno iniziando a produrre come sintomi della ristrutturazione di vastissima scala capitalista che è stata sviluppata durante gli anni ’80.
[sul primo fenomeno:] La classica considerazione a proposito della schiavitù come una formazione essenzialmente pre-capitalista, o al più un’anomalia una volta che “il sistema capitalista fondato sul lavoro salariato ha iniziato a maturare su scala globale” rimane valida. Ma nelle economie schiaviste dei Caraibi, la schiavitù non era una qualche arcaica o pre-capitalista formazione sociale in relazione anomala con il nascere del capitalismo, al contrario, ha prodotto il primo proletariato moderno organizzato su larga scala e una produzione capitalistica integrata […]
Se vogliamo mettere insieme questi due regimi sociali di lavoro, quello delle masse di schiavi nel Nuovo Mondo e quella dei lavoratori servili in abitazioni, botteghe, fattorie del Vecchio, allora abbiamo una rappresentazione radicalmente diversa della dinamica della nascita del capitalismo e dei modelli di subordinazione sociale che hanno consentito che accadesse. Nei termini più basilari di storia sociale, per esempio, i domestici […] costituivano una delle maggiori e più essenziali categorie di lavoratori del XVIII e del primo XIX secolo […], eppure raramente hanno avuto un qualche ruolo all’interno dell’economia capitalistica o della formazione della classe lavoratrice. Quindi, se prendiamo seriamente in considerazione la centralità del lavoro non industriale insieme a quello servile, domestico e tutto ciò che è fornito in casa, aggiungendolo al meccanismo della produzione schiavistica di massa, allora la nostra prospettiva sull’economia politica e la formazione della classe lavoratrice sicuramente deve cambiare.
[…] Oggi le relazioni sociali di lavoro sono state drasticamente trasformate in direzione di nuovi bassi salari, semi-legali, e di un mercato del lavoro deregolamentato basato per la maggior parte su economia dei servizi sempre più transnazionale. Alla luce di questa radicale re-proletarizzazione del lavoro sotto il capitalismo avanzato di oggi le precedenti forme prevalenti di lavoro organizzato socialmente rilevanti, stabilite dopo il 1945, che i socialdemocratici post bellici hanno creduto così fiduciosamente potessero diventare normative, riemerge come un fenomeno del tutto inusuale e transitorio. La vita di quella visione democratica di redistribuzione sociale, recentemente sconfitta, di umanizzazione del capitalismo, si rivela come un progetto esaurito ed eccezionale, proprio come per lo più confinato al periodo fra l’accordo post-bellico e il suo lungo e doloroso smantellamento dopo la metà degli anni ’70.
Group of Negros, as imported to be sold for Slaves (William Blake, 1796).
Stampa custodita presso il British Museum
[…] Pertanto, una volta definita la formazione della classe lavoratrice non solo a partire dalla creazione delle relazioni salariate nel senso stretto ma dalle contribuzioni del lavoro ad una varietà di regimi di accumulazione più ampi [per esempio i servants e schiavi del diciottesimo secolo ndr] possiamo anche vedere le molteplicità dei possibili regimi di lavoro più facilmente. […] Chiaramente dobbiamo tener ferma la necessità di distinguere fra forme di lavoro “coercitivo” e “libero”, poiché altrimenti alcune specifiche del contratto di lavoro nel capitalismo industriale sarebbero molto più difficili da vedere, particolarmente quelle che richiedono nuove forme di dominio di potere e di sfruttamento oltre il processo immediato sul posto di lavoro in sé.
Per sintetizzare: da una parte, ci sono forti basi per vedere la servitù e la schiavitù come forme sociali di lavoro che sono state fondanti della modernità capitalista forgiata nel diciottesimo secolo; d’altra parte, c’è altrettanta grande evidenza a partire dal ventesimo secolo del delinearsi di una nuova e radicale versione del contratto di lavoro misero. Queste nuove forme di sfruttamento del lavoro sono cresciute intorno alla montante prevalenza del mercato a salario minimo, bassa qualificazione e basse competenze, disorganizzato e deregolamentato, con lavoro migrante semi-legale, nel quale i lavoratori sono sistematicamente spogliati della maggior parte delle forme di sicurezza e protezione organizzata. Questo è ciò che è caratterizzante della circolazione del potere del lavoro nelle economiche globalizzate e post-fordiste del mondo tardo capitalistico e questo è da dove io penso che bisogni partire nel compito di specificare le caratteristiche distintive del presente. Che sia dal punto di vista del “futuro” del capitalismo e da quello delle sue “origini”, la più classica analisi del capitalismo e delle sue formazioni sociali come centrate sulla produzione industriale in manifattura comincia a sembrare incredibilmente parziale e potenzialmente distorsiva; sembra una fase che si può ritrovare per lo più in Occidente e in modi che presuppongono precisamente la sua assenza dal resto del mondo e la sua durata per un periodo significativamente breve della storia.
Concludendo, alla luce di tutto ciò, abbiamo drammaticamente bisogno di lavoro – concettuale, storiografico – che aiuti a definire le specificità della formazione della classe lavoratrice nel nostro presente inizio di XXI secolo, non solo in termini di sociologie materialiste e di meccanismi di aggregazione strutturale, ma anche in termini di sue forme di coscienza collettiva e di azione collettiva.
In qualche modo la scala globale delle nuove brute materialità del lavoro e della formazione della classe lavoratrice sono state relativamente facili da cogliere – in termini di redistribuzione globale dell’industria pesante, di [spostamento di] ogni genere di manifattura, di insieme di impianti ecc. dovunque il costo del lavoro, il regime fiscale, i regolamenti ambientali, i controlli di salute e sicurezza, le leggi, le sovranità territoriali e il controllo pubblico fossero più permissive; in termini di transnazionalizzazione dei mercati del lavoro fra regioni, continenti e vastissime distanze geografiche; in termini di deregolamentazione del sistema finanziario […]; in termini di regime di accumulazione contemporaneo e mobilità del capitale, di spettacolarizzazione del consumo, e demolizione dei beni pubblici. In tutti questi termini noi siamo oggi in grado di cogliere le specifiche sociologiche contemporanee della formazione di classe, assistiti dagli scritti di personalità quali David Harvey, Tim Mitchell, Göran Therborn, Pietro Basso, Guy Standing, Marcel van der Linden, Beverly Silver e Leo Panitch. Ma ciò che è davvero difficile da vedere è che tipo di politica potrebbe produrre coerenza e azione organizzata sotto queste nuove condizioni di accumulazione globale; una politica che possa essere in grado di implementare le capacità democratiche, con un’efficacia comparabile a coloro che realizzarono la tradizione socialista nel XX secolo. In questi fondamentali termini di transizione, come dovremmo pensare la politica della formazione della classe-lavoratrice oggi?