photocredits: Filippo Romano
Mentre Roma combatte contro la spazzatura e Napoli perde tempo sulle buffonate identitarie, Milano porta a casa le Olimpiadi invernali del 2026, insieme a Cortina.
Milano porta l’Italia in Europa perché si conferma ancora una volta l’unica città in grado di fare sistema in un Paese il più delle volte incapace di pianificare, di guardare in avanti, di orientarsi nel mondo globale e di puntare in modo risoluto verso gli obiettivi prestabiliti. In una parola: pianificare. Pertanto, chapeau. Passata l’ebrezza però, le questioni sul tavolo di urbanisti, politici, scienziati sociali e comitati civici appaiono numerose e niente affatto semplici. Sì, perché una cosa è vincere in un ambiente globale estremamente competitivo quale quello dell’assegnazione dei giochi olimpici, un’altra è disegnare e realizzare la città futura approfittando di questa opportunità per mettere in pratica quanto lo stesso sindaco Sala solo pochi giorni fa aveva dichiarato: «Milano mai più città dei soldi. Priorità a casa e lavoro». Condivisibile, certo, ma cosa significa «Milano», oggi? E, di conseguenza, l’assegnazione delle Olimpiadi invernali rappresenta un successo e un’opportunità per chi?
Una decina di anni fa, lo scrittore Dante Maffia rispose in modo piuttosto radicale a questa domanda che ciclicamente riaffiora nel dibattito pubblico, spesso in corrispondenza di un nuovo ciclo urbano. Maffia intitolò il suo romanzo sul disagio urbano «Milano non esiste». Ed in parte è vero. Certo, in dieci anni la città è andata avanti, come piace dire a quanti vi scorgono i segni inequivocabili di una modernità in grado di rimodellare lo spazio urbano in modo simile a quello di altre metropoli europee e mondiali sempre più smart. Tuttavia, per molti che vivono la città, il vocabolario a nostra disposizione è quasi del tutto insignificante. Più che moderna, smart, vincente, la città presente è un luogo di crescenti disuguaglianze, di privazioni, d’impossibilità di partecipare dei benefici che la ricchezza creata dovrebbe assicurare a tutti e che invece garantisce a pochi, sempre più benestanti, a scapito di molti altri.
Chi nelle Olimpiadi invernali, come negli altri grandi eventi, vede enormi possibilità di guadagno non può che osservare il futuro della città da una prospettiva irriconciliabile con quella di quanti vivono forme di esclusione che vanno dalla carenza di assistenza, alla limitata mobilità che si amplifica in rapporto alle differenze di genere, alla precarietà del lavoro, alla dispersione scolastica, alla ridotta capacità di consumo di beni culturali, alla scarsa fruibilità di spazi verdi e alla segregazione su base etnica. Per molti e molte l’enorme quantità di soldi che la realizzazione delle Olimpiadi farà affluire su Milano non farà altro che trasformare la disuguaglianza in crescente polarizzazione sociale di cui inevitabilmente soffriranno gli strati più fragili della popolazione che coabitano nello spazio urbano, e spesso sono costretti a competere tra loro in sanguinose battaglie tra poveri. Lasciato libero di operare in base alle proprie leggi economiche, questo afflusso di capitali peggiorerà la città futura, saturerà il mercato immobiliare, provocherà aumenti dei prezzi al consumo, e renderà il benessere ancora più inaccessibile, cosicché i semplici appelli alla collaborazione istituzionale che la Politica è abituata a proclamare nelle fasi iniziali di programmazione si dimostreranno essere lettera morta, alla prova dei fatti.
Chi sono allora i soggetti che è necessario interpellare affinché la dichiarazione del sindaco Sala non contribuisca a lastricare di buone intenzioni la via maestra che conduce alla lacerazione del tessuto urbano che il neoliberismo costantemente produce e riproduce? E quali sono le forme istituzionali in grado di assicurare, una volta interpellate, che queste soggettività possano realmente incidere sul processo decisionale sebbene, di fatto, questo sia già avviato e interamente nelle mani di chi è fedele esclusivamente alla logica del profitto? Com’è possibile redistribuire le enormi risorse mobilitate in modo tale da dare vita a un modello inclusivo di partecipazione in grado di estendere i benefici che le Olimpiadi potrebbero portare? Quali strategie adottare per rendere duraturi questi benefici in modo tale da contribuire a un nuovo ciclo urbano più sensibile ai bisogni di quanti non hanno voce eppure vivono la città in quanto residenti.
Rispondere a queste domande implica un cambio di orizzonte. Significa pensare la città oltre se stessa. Vuol dire concepire questa opportunità in un quadro spaziale integrato che collega la città, alla Regione, allo spazio nazionale ed europeo nel quale questi processi innescati si collocano. Esistono strumenti concettuali e tecnici elaborati in altri contesti di sviluppo urbano che consentono di governare questi processi e di orientare la politica nella giusta direzione, sottraendo terreno fertile ai populismi che le disuguaglianze nutrono di paura e di rancore. E sono strumenti la cui efficacia è possibile solo a patto di una scelta coraggiosa: abbandonare una visione totalmente autocentrata della città in base alla quale le domande e le risposte rimangono sempre e solo endogene, autoreferenziali e chiuse entro le mura – per quanto porose – della metropoli. Stimolare questo cambio di orizzonte significa riformulare le questioni in modo radicale. In sintesi, si tratta di provincializzare Milano. Taac!