Università di Firenze
L’articolo è tratto dall’eBook Patrimonio immateriale: mestieri e culture che fanno futuro pubblicato da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli per la collana Scenari. 

Il mondo si sta riempendo sempre più di azioni di repressione, confinamento, allontanamento e abbandono come spostamento oltre un muro. Muri e zone invalicabili, che confinano umani e non-umani con i quali non vogliamo convivere più. Diventano l’Altro da noi, e spesso le connotazioni del diverso non sono affatto positive. La diversità, anziché essere apprezzata, diventa svalorizzata e perseguitata, per essere abbandonata e eliminata.

(…) È una continua dinamica, quindi, quella dell’abbandono, che coinvolge tutta la nostra cultura, e a cui nulla a priori sfugge, tutto può essere parte dell’abbandono. Le cose abbandonate (i paesaggi ma non solo) hanno anche la caratteristica di interrogare profondamente ognuno di noi e la nostra cultura, ci coinvolgono emotivamente, ci lasciano perplessi e dubbiosi. Il concetto di abbandono può meglio essere visto più che in se stesso, nelle dinamiche dell’abbandonare. Come avviene l’abbandonare? Perché? Da parte di chi? Con quali intenti, con quali metodi, con quali risultati? L’abbandono avviene dall’alto o dal basso? Ci viene imposto top-down oppure no? Gli studiosi di postcolonial studies ci avvertono che le dinamiche che avvengono in una cultura non sempre sono imposizioni dall’alto (urbanizzazioni, gentrification, piani regolatori ecc.), ma spesso sono imposizioni che sfruttano le connivenze dal basso, sfruttano la condivisione di una medesima episteme.

È quindi una condivisione intima di atteggiamenti (per esempio la vergogna verso i contadini o verso il passato contadino, o il passato tout court, o la spinta verso il consumismo ecc.) che provoca abbandoni. Gli abbandoni spesso comportano perdita di conoscenze. Spesso insieme con edifici, spazi, colture, tecniche, modi di fare perdiamo anche tutte le conoscenze naturalistiche connesse a essi. Per esempio, il raccoglitore di sassi del Piave che ho tanto intervistato, il cariòto, conosceva ogni singolo sasso del greto del Piave, e lo distingueva in base a colori, forme, suoni, pesantezza, utilità, e dava a ogni sasso un nome, anche attraverso immagini e metafore.

È una grande capacità di distinzione quella che lui mostra, una volontà di conoscere l’ambiente, ciò che ci sta attorno, sotto, sopra, insieme a noi. E ogni volta che si perdono conoscenze, poi bisogna affannarsi a recuperarle con dispendio di fatica e a volte anche con insuccesso. Pensiamo all’utilità che potrebbero avere d’ora in avanti le conoscenze naturalistiche popolari riguardo al clima, ora che siamo in tempi di Antropocene, e di cambiamenti climatici. Conoscere acque, neve, nebbia, galaverna e simili, potrebbe essere fondamentale per poter ragionare sui cambiamenti climatici. Ho parlato molto di natura e ho citato casi che la implicano perché è ormai assodato che ogni cosa che riguarda la cultura è qualcosa che riguarda anche la natura. Umani e non-umani sono implicati insieme in ogni processo.

Gli umani si muovono insieme con tutti i non-umani (come si usa ormai dire, per segnalare tutto quel complesso di esseri che stanno insieme agli umani nel mondo). Ambiente, paesaggio, natura, non sono uno sfondo nel quale agisce “il più importante dei soggetti”, l’uomo, con assurda presunzione di priorità epistemologica. Ambiente e paesaggio anzi sono un campo di relazioni, una zona di inter-penetrazione dove tutti si muovono insieme, intrecciandosi, incontrandosi, scontrandosi. Come dice l’antropologo inglese Tim Ingold, natura e cultura sono un intreccio, una corda di canapa. Un intreccio di uno e l’altra. “La cultura sorge dentro l’onda della vita”. Perciò ciò che noi facciamo con le nostre società e le nostre culture rivela la nostra considerazione e la nostra relazione con l’onda della vita. Ecco che spesso l’onda della vita si rifugia proprio nei nuclei abbandonati, perché essi sono anche i nuclei fuoriusciti dalla programmazione del territorio e della vita socio-culturale. Gilles Clément li definisce “terzi paesaggi”. Essi sono il rifugio per la biodiversità. È là che la natura ritorna, riprende i suoi spazi, riconquista vitalità perduta, dato che è stata cacciata, soprattutto nel mondo capitalistico che comprende nelle sue dinamiche di dominio anche la natura.

(…) Le più tipiche forme di terzo paesaggio sono le zone militari abbandonate, anche dentro le città, le zone minerarie o industriali abbandonate, le ferrovie secondarie, le paludi e zone umide ritenute malsane, i terrazzamenti in montagna in stato di abbandono, anche piante come il ficodindia o il gelso. In questi luoghi la natura ritorna. Per questo sono luoghi di friction, come direbbe l’antropologa Anne Tsing, di slow disturbance, oppure di contamined ecologies, diversità contaminate.

Non sono nature incontaminate, o culture originarie, o identità pure. Come disse J. Clifford, i frutti puri impazziscono. I paesaggi oggi sono quel che sono, di certo non originari e incontaminati, dobbiamo prenderli per quell’ibrido che sono e lavorare con essi. Il terzo paesaggio ha la caratteristiche di essere timido, imprevedibile, nomade, accoglie la biodiversità; rivela la parte inconscia di noi, protegge se stesso e protegge l’uomo. È poco strutturato e marginale, irrazionale e pieno di diversità. Spesso è improduttivo. Sottolineo questa caratteristica proprio perché essa è quella che più si contrappone alla cultura occidentale, capitalistica, iperproduttiva e iperefficiente, dove tutto ciò che non è immediatamente produttivo e utilizzabile viene colpevolizzato e marginalizzato. Questi paesaggi invece si oppongono all’accumulazione, e favoriscono invece l’invenzione. Sono pieni di creatività. Che cosa fare con questi paesaggi lo dice molto bene Gilles Clément, nel suo Manifesto del Terzo paesaggio che è un testo per una rivoluzione. Egli ci parla del non-fare, di impostare cioè una cultura diversa da quella dannosa del fare. Quello che dovremmo fare è “aspettare”, osservare ogni giorno, e poi collaborare con gli altri esseri viventi. Agire con loro, non contro di loro.

Ecco perché una cava in via di smantellamento può diventare un teatro o una discarica può diventare un giardino. Dovremmo porre domande ai paesaggi abbandonati, stupirci, lasciar agire e imparare qualcosa ogni giorno. “Collaborare con il potere di invenzione della natura”, dice Gilles Clément. Si tratta di impostare una diversa cultura, con caratteristiche adatte al terzo paesaggio, all’abbandono, per convivere bene con esso. Per mettere in atto questo modo di diverso fare, bisogna accettare l’indecisione, i tempi lunghi, apprezzare l’improduttività. (…) Se raggiungeremo questo obiettivo, che è quello di tornare a intrecciarci come corda di canapa con la natura, formando una corda equilibrata e forte, fatta di umani e non-umani, allora tutti gli stati acuti di alienazione dell’uomo dal resto dei viventi saranno meno acuti e noi potremmo cogliere l’occasione degli abbandoni per avviare processi di accoglienza di nuova vita biosociale di umani e non-umani insieme. E saremo più felici.

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