Oggi, 22 aprile 2020, nel bel mezzo della crisi sociale ed economica generata dal Coronavirus, le Nazioni Unite celebrano il cinquantesimo anniversario dell’Earth Day, la Giornata Mondiale della Terra.
Ora più che mai, questa ricorrenza appare di fondamentale importanza: l’emergenza che stiamo affrontando ci porta a realizzare il fatto che tutto è collegato, tutto è interconnesso: il pianeta non è più un semplice insieme di nazioni che interagiscono tra loro, occasionalmente frenate da confini o occasionalmente aggregate in alleanze. La citazione di John Donne, “nessun uomo è un’isola”, dovrebbe ricordarci che niente sulla terra, sopra la terra, sotto la terra è isolato: tutto è connesso e legato da cause ed effetti plurimi. Le pandemie e il cambiamento climatico sono entrambi fenomeni sistemici, dal momento che le loro manifestazioni dirette e i loro effetti si propagano velocemente all’interno di un mondo interconnesso.
In tal senso, parlare di pianeta e cambiamento climatico ha in questo momento più valore che mai. Può sembrare infatti che, approfittando della nostra assenza, la natura si stia riprendendo pian piano i suoi spazi e, all’inizio di marzo, quando hanno cominciato a circolare le immagini satellitari che mostravano l’impressionante riduzione delle emissioni inquinanti provocata dagli effetti del nuovo virus in Cina, in molti hanno frettolosamente pensato che questa terribile crisi avrebbe avuto perlomeno un effetto positivo: rallentare notevolmente il cambiamento climatico.
Fonte: http://www.earthobservatory.nasa.gov/
Se a prima vista l’emergenza Coronavirus può apparire come una buona notizia, almeno per il clima, uno sguardo più attento non può fare a meno di osservare che le cose non stanno esattamente così, soprattutto se si guarda oltre il breve periodo. In primo luogo, si corre il rischio che governi e imprese accantonino le politiche di investimento già programmate per dedicarsi a questioni “più urgenti” da affrontare nel breve periodo. Tali investimenti non solo rischiano di perdere la priorità acquisita all’interno delle agende di governi e imprese, ma potrebbero improvvisamente risultare come poco convenienti da un punto di vista economico; basti pensare, primo tra tutti, al mercato delle auto elettriche, che secondo le stime della società britannica Wood Mackenzie, subirà un calo vertiginoso nei prossimi mesi, scendendo dalle 2,2 milioni di unità del 2019 a 1,3 milioni di quest’anno e flettendo del 43%. A influenzare negativamente il settore della mobilità elettrica sarebbero, secondo la società britannica, il calo del prezzo del petrolio, che riflettendosi sui costi dei carburanti rende ancora più “antieconomico” il passaggio all’elettrico, soprattutto per percorrenze annue non elevate, e soprattutto l’incertezza economica generalizzata legata alla crisi globale. A ciò si aggiunge il fatto che, a causa dell’epidemia, molte delle più importanti conferenze sul clima verranno posticipate, con il rischio di posticiparne di conseguenza anche gli obiettivi: il 1 Aprile l’UNFCCC ha confermato ufficialmente ciò che nell’ultimo periodo già si sospettava, ovvero la posticipazione di circa sei mesi della COP26 che si sarebbe dovuta tenere a Glasgow il prossimo novembre.
Abbiamo inoltre l’esempio e l’eredità delle crisi precedenti che, come suggerito da Glen Peters, Direttore del Centro per la Ricerca Internazionale sul Clima e l’Ambiente di Oslo, ci mostra come tutte le recenti crisi economiche (gli shock petroliferi degli anni settanta, il crollo del blocco sovietico, la crisi finanziaria asiatica degli anni novanta) siano state effettivamente accompagnate da riduzioni delle emissioni inquinanti, rappresentando gli unici momenti nella storia recente dell’umanità in cui la costante crescita di tali emissioni si è interrotta. Tuttavia, ogni volta, si è trattato di un calo nel breve periodo, mentre la ripresa ha generato poi un aumento ancora più rapido e vertiginoso che nei periodi precedenti le crisi e ponendo le basi di numerose “occasioni mancate” per la transizione energetica.
Numerosi studi sostengono come, nel nostro mondo globalizzato e interconnesso, la crisi attuale sia strettamente connessa all’emergenza ecologica e si impone come doveroso aspettarsi che questa sia solo la prima di altre crisi (sanitarie, economiche o umanitarie) dovute al cambiamento climatico e alle sue conseguenze.
Ma vogliamo davvero continuare ad affrontare ogni nuova crisi con lo stesso modello socio-economico che ha dato origine alle crisi precedenti? Dobbiamo continuare ad agire nello stesso modo o è possibile una via d’uscita alla crisi climatica ed economica? Non è forse necessario cogliere l’opportunità della crisi attuale per deviare il corso del nostro sviluppo che potrebbe avere conseguenze ancor più disastrose degli effetti della pandemia?
Una possibile soluzione esiste ed è rappresentata dal Green New Deal, inteso come opportunità di riorientare le risorse economiche in una direzione dove scienza, economia e politica concorrano a strutturare una società capace di sostenere tanto il presente quanto il futuro.
Ma come sfruttare davvero l’occasione di rimettere in discussione il sistema presente per costruire questo nuovo patto? Chi dovrebbe partecipare alla definizione di nuove priorità e con quali strumenti?
Never Waste a Crisis è il titolo di un recente articolo di Phoebe Koundouri, professoressa di Sviluppo Sostenibile dell’Università di Atene, il cui obiettivo è proprio quello di evidenziare le potenzialità offerte dalla crisi nel modificare in breve tempo le coordinate di riferimento di un sistema generando importanti cambiamenti.
Ci sarà da interrogarsi, ora e nei prossimi mesi, senza attendere lo svolgimento della COP26, su quali saranno gli investimenti da sostenere in questa direzione e su quale sia il ruolo dei vari attori coinvolti in questo processo di riconversione a livello di governi, imprese, singoli individui e società civile.