A Buenos Aires la vita era quella di tutti i giorni, con il caotico traffico di sempre, le file davanti a cinema, teatri e ristoranti, mentre macchine senza targa si aggiravano silenziose, dando la caccia all’uomo per tutta la città, e la gente non capiva o poteva pretendere di non capire quello che stava accadendo.
[Enrico Calamai, ex Viceconsole italiano in Argentina, 2018]
«È un’incognita, è un desaparecido, non ha entità, non c’è. Né morto né vivo, è desaparecido» – è stato il dittatore argentino Jorge R. Videla, nel dicembre del 1976, a dare quella che forse è la definizione più nota della desaparición. Pochi mesi prima il generale aveva specificato, di fronte alle sue Forze Armate, che nel paese non sarebbero state permesse azioni disgreganti e anti-nazionali in nessun ambito: nella cultura, nei mezzi di comunicazione, nell’economia, nella politica e nei sindacati (“La Nación”, 9 luglio 1976). E, naturalmente, nel mondo della scuola, dove si sarebbe dovuto vegliare su alcune materie – storia, educazione civica, economia, geografia e religione – e su alcune pratiche, come quella di commentare in classe l’attualità. Come quella, in sostanza, di pensare. La dittatura argentina, così come gli altri regimi “gemelli” che hanno insanguinato l’America Latina tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, puntava naturalmente al futuro: il Ministerio de Educación, ad esempio, vantava al suo interno un ufficio del SIDE (il Servicio de Inteligencia del Estado) per individuare in ambito educativo le persone sospette di essere “sovversive”1. E farle così sparire: la stragrande maggioranza dei desaparecidos argentini, oggi lo sappiamo, avevano tra i 16 e i 35 anni.
Chi è un desaparecido, dunque? È una figura che riassume in sé «la pretesa più radicale» da parte di uno Stato, vale a dire il «prendere possesso delle vite delle persone a partire dalla sottrazione delle loro morti». Così viene definito il fenomeno della desaparición fozada tra le pagine curate dalla Presidencia de la Nación argentina – ora democratica – e dal medesimo Ministerio de Educación – ora democratico – con il titolo La Última Dictadura, un agile opuscolo governativo, con fini informativi ed educativi, che misurando la distanza che dovrebbe esserci tra una democrazia compiuta e una dittatura militare prova a raccontare in poche parole il segmento argentino di un fenomeno nel quale «la classe pensante dell’America Latina è stata stroncata». Queste ultime sono invece parole di Martín Almada, avvocato e attivista con l’incommensurabile merito di avere scovato l’“armadio della vergogna” latinoamericano, il 22 dicembre 1992. Nella periferia di Asunción, in Paraguay, Almada costrinse la polizia ad aprire la caserma locale trovando una documentazione di 700.000 carte che confermavano l’esistenza del Plan Cóndor, un’operazione congiunta di diversi paesi sudamericani, sotto l’egida degli Stati Uniti, volta ad annichilire l’opposizione politica alle dittature militari, ad «elimina[re] le frontiere per eliminare i dissidenti», sintetizza ancora Almada. I paesi coinvolti, oltre al Paraguay, erano Brasile, Bolivia, Uruguay, Cile e – naturalmente – la stessa Argentina.
L’avvocato Almada è una delle voci che nel documentario La memoria del Cóndor (di Emanuela Tomassetti, Italia 2018) ci guidano tra le pieghe di questa vicenda che ha visto la sparizione di decine di migliaia di persone, e lo fa a partire da un processo iniziato nel 2015 nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma. Un processo andato nel frattempo avanti, che cerca di dare giustizia a coloro che – sono parole del procuratore generale Francesco Mollace – «pensavano di affacciarsi alla democrazia e invece sono stati annichiliti». Un processo che ha avuto luogo in Italia perché tra i desaparecidos c’erano anche uomini e donne di origine italiana – di famiglie migranti –, così come tra i loro rapitori e i loro assassini, così come tra i loro salvatori.
Italiano di nascita è invece Enrico Calamai, all’epoca un giovane diplomatico che in Cile prima, e in Argentina poi, riuscì a trarre in salvo centinaia di richiedenti asilo, e che ne ha parlato nel libro Niente asilo politico. Dilpomazia, diritti umani e desaparecidos (2003), dal quale è stata tratta anche una serie tv. Tornando a riflettere su quanto accaduto, Calamai ha scritto che i militari argentini non avevano commesso «l’errore dei colleghi cileni, che avevano fatto ricorso ad una violenza estrema, messa in scena erga omnes e ripresa dalla televisione»: a Buenos Aires non c’era stato il bombardamento del palazzo presidenziale, «non si vedevano carri armati per le strade, non c’erano stadi pieni di detenuti torturati e uccisi né, tanto meno, ambasciate invase da disperati in fuga per la vita. Soprattutto, non si vedevano cadaveri e se non c’erano cadaveri non c’erano morti e se non c’erano morti non c’era violenza». Eppure la violenza permeava ogni cosa, ed «era una violenza sistematicamente relegata nel cono d’ombra di un’informazione mondiale ormai prevalentemente iconografica, in cui l’opinione pubblica dà per scontato che tutto ciò che accade sia rappresentato e che ciò che rappresentato non è, semplicemente non accada».
Il punto di partenza delle riflessioni di Calamai nel libro Desaparecidos e migranti nel Mediterraneo e nelle Americhe è il lavoro fatto con il Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos del Mediterraneo, a partire dall’assunto che la Convenzione internazionale contro la desaparición forzata, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2006, «non basta a far sparire la desaparición dalla realpolitik». È vero, come ci ricorda Giacomo Donadio, attivista di CarovaneMigranti – una delle prime realtà europee a proporre una comparazione tra le varie sparizioni, del passato e del presente –, che il concetto di sparizione forzata proprio secondo la Convenzione implica una privazione di libertà, il fatto che questa avvenga a opera «di agenti di Stato o persone o gruppi di persone che agiscono con l’autorizzazione, l’acquiescenza o la tolleranza dello Stato», e infine che questa sia seguita «dal rifiuto da parte dell’autorità di riconoscere che la stessa abbia avuto luogo, nonché dal rifiuto di fornire informazioni» sulla sorte delle vittime, ponendole di fatto al di fuori della protezione della legge. Ma è più che legittimo, sostiene Donadio, evidenziare «lo stato di sospensione», la sofferenza e la ricerca dei familiari, le «interlocuzioni concrete tra storie diverse ma caratterizzate, allo stesso tempo, da esperienze comuni di lotta per la verità e giustizia, oltre che da un dolore comune». Ed è altrettanto vero che, forzate (desapariciones forzadas) o non (desapariciones / missing persons), che coinvolgano o meno entità sovranazionali, governative o paragovernative, o che siano conseguenze di accordi con esse, le sparizioni sono una piaga anche e soprattutto del nostro tempo. Molte stime credibili parlano di quasi trentamila desaparecidos forzados e di 150 mila morti, ricorda nello stesso volume Gianfranco Crua – anche lui attivista di CarovaneMigranti – riferendosi al solo territorio messicano nei dodici anni trascorsi dal 2006 all’inizio del 2018. Le migliaia di scomparsi di ogni anno sulla rotta mesoamericana, nel mar Mediterraneo e nei paesi di transito come la Libia, non sono un incidente di percorso, ma il frutto di strategie politiche e interessi economico-criminali convergenti, dai quali è legittimo tentare di difendersi.
Come scrive ancora Calamai, «queste morti non sono che il portato delle misure pattizie, securitarie ed omissive attuate dalla Ue, dalla NATO e dai loro Paesi membri nei contatti con gli Stati africani e del Medio Oriente, con finalità di deterrenza verso i disperati in fuga: come se i pompieri anziché salvare gli abitanti di un edificio in fiamme, barricassero porte e finestre per impedirne l’uscita». I miliardi di euro versati a Turchia, Libia e agli altri paesi del sud del Mediterraneo – prosegue Calamai –, così come gli accordi bilaterali, l’assistenza a forze armate e di polizia e la fornitura di tecnologie e di mezzi finanziari, «ricordano il tristemente noto Piano Condor», con cui «si portava a termine l’annientamento dei “sovversivi”»2.
Ed eccoci qui, a chiederci quanto questo accostamento risuoni in noi, quanto non si sia ormai delineato uno scenario globale in cui i veri sovversivi, in fondo, sono coloro che vogliono portare a termine il loro viaggio – e per questo vengono fatti sparire, uccisi, o lasciati morire. È un tema immenso, perché riguarda direttamente anche noi e chi ci governa: si tratta “semplicemente” del fallimento della comunità internazionale o di altro?
«C’è una questione che emerge pochissimo ed invece è fondamentale: quella della responsabilità di uno Stato per i crimini commessi da un altro Stato» – queste parole sono state pronunciate di recente, e non a proposito dell’Operazione Cóndor, ma dell’esposto che sarà presentato alla Corte penale internazionale per i morti in mare e i respingimenti verso la Libia: 244 pagine che mettono in evidenza, tra le altre cose, i 40.000 respingimenti fatti da UE e Italia nel solo periodo tra il 2016 e il 2018, attraverso la Guardia costiera libica, che hanno causato un numero imprecisato di morti e sparizioni.
Dario Belluccio dell’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) sottolinea come un articolo del progetto di articoli sulla responsabilità dello Stato (non dell’individuo) della Commissione del diritto internazionale dell’ONU dice «che uno Stato è corresponsabile se è a conoscenza ed agevola un altro Stato nella commissione di crimini previsti e punibili dal diritto internazionale, quindi questa complicità è sostanzialmente equiparata alla commissione del crimine». E allora oggi viene seriamente da chiedersi quali individui e quali Stati, a partire da domani, pagheranno per tutto questo – e che cosa ne scriveranno gli storici del futuro.
1 Felipe Pigna, La historia de todos, in memory under construction / memoria en construcción. El debate sobre la Esma (a call by Marcelo Brodsky), la marca editora, Buenos Aires 2005, pp. 57-64.
2 Enrico Calamai, “La desaparición ieri e oggi”; Giacomo Donadio, “In viaggio attraverso pratiche comuni. Le storie delle Madri che rompono il silenzio”; Gianfranco Crua, “Verso quali rotte? Le loro e le nostre”, in Gianfranco Crua, Anita Silvietta Giletti, Franco Prono (a cura di), Desaparecidos e migranti nel Mediterraneo e nelle Americhe, Bonanno, Roma 2018, in particolare alle pp. 32-7; 41; 50-4.