Dottorando di ricerca in Studi sulla criminalità organizzata UNIMI, coordinatore del progetto Novecento Criminale in Laboratorio Lapsus

Può essere un adolescente in cerca di sballo come un professionista tossicomane, una sentinella della piazza di spaccio come un boss delle piccole e grandi mafie d’Italia, un giovane addetto alla distribuzione degli introiti mensili o un finanziere incaricato del riciclaggio dei capitali illeciti, un trafficante internazionale, un coltivatore del Sud America o un tossico di periferia: produttori, intermediari, affaristi, venditori al dettaglio, consumatori, ma anzitutto e ineluttabilmente rotelle di un ingranaggio vasto e articolato quale è quello del mercato nazionale della droga.

Numeri. L’Italia è il terzo paese in Europa per consumo di cannabis e il quarto per uso di cocaina secondo le stime dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (EMCCDA, 2018). Il 2,6% dei 25-34enni ha dichiarato di aver assunto cocaina nell’anno precedente all’intervista. Presenza capillare e pervasiva, quella degli stupefacenti, tanto da non risparmiare le reti idriche delle città: Milano ad esempio, capitale economica e morale del paese, ha fatto registrare tra il 2015 e il 2017 un vistoso incremento della cocaina nelle sue acque di scolo. La droga è ormai da anni parte costitutiva dello scenario urbanistico nazionale: Roma rappresenta non solo un grande mercato, con i suoi quartieri in balia di agguerriti gruppi criminali, ma anche uno snodo nevralgico del narcotraffico mondiale. Fino a qualche anno fa, Napoli aveva nella Scampia controllata dalla camorra la più grande piazza di spaccio d’Europa, mentre ora nel suo centro storico infuria lo scontro fra “paranze” per la gestione del settore. La realtà si è fatta presto cronaca e quindi fiction: le serie tv Suburra e Gomorra come raffinate estetiche del male, metafore di pezzi del paese sottratti alla sovranità dello stato, i cui abitanti, in assenza di servizi e lavoro finiscono preda del populismo politico quando non di quello mafioso.

Perché nell’immaginario mentale degli italiani alla parola droga se ne associa inevitabilmente un’altra: mafia. Il fatturato dei gruppi mafiosi in Italia è valutato nell’ordine delle decine di miliardi di euro l’anno, delle quali buona parte deriva dal traffico di stupefacenti. Che ruolo ha giocato e tuttora gioca questo campo di attività per le mafie storiche e per quelle di nuova formazione? Rappresenta un’impareggiabile fonte di guadagno, si sa, ma non solo. Dal secolo scorso è vettore di espansione per il crimine organizzato. Cominciò Cosa nostra sfruttando i canali già collaudati con gli Stati Uniti d’America. Nel secondo dopoguerra costituì basi di transito della merce o di raffinazione in diverse città italiane, dalla Milano di Joe Adonis e Gerlando Alberti alla Roma di Frank Coppola. Largamente visibile da decenni è la penetrazione della ‘ndrangheta in Nord Italia, che nel commercio dei narcotici ha trovato un’importante sollecitazione. Le ‘ndrine però, a differenza di mafia e camorra, nell’espandersi hanno messo radici creando strutture integrate sul modello della casa-madre calabrese. A Napoli i traffici illeciti hanno prodotto genealogie criminali che dal dopoguerra arrivano ai giorni nostri: quartieri come la Sanità e Forcella restano centri ad altissima densità camorristica e oggetto di brutali contese per il controllo del narcotraffico. È poi evidente che un’attività fortemente localizzata e “sociale” come la vendita della droga costituisca una leva per il controllo dei territori, elemento su cui da sempre si fonda il potere mafioso. Storicamente le mafie si consolidano penetrando nelle pieghe della società, vale a dire costruendo reticoli di relazioni volti ad assicurare ricavi economici, coperture politiche, consenso popolare. Per una gestione ordinata del commercio di droga e al riparo dalla repressione occorre tessere rapporti con chi nei quartieri dello spaccio ci vive. Da qui il ricorso a forme più o meno sofisticate di welfare mafioso: dai compensi per chi nasconde piccole dosi di sostanza o armi agli aiuti grandi e piccoli elargiti a persone in difficoltà economiche.

Soprattutto, è spesso questo terreno a segnare il passaggio tra mafie vecchie e mafie nuove. È quanto emerge dalle ultime risultanze giudiziarie: da qualche decennio in vari centri e in modo particolare a Roma si è creato un intreccio fra organizzazioni storiche e gruppi criminali locali. Numerosi esponenti delle mafie tradizionali vi si sono insediati entrando in contatto con delinquenti autoctoni. Se prima questi ultimi si dedicavano alle rapine in banca o ad affari di piccolo cabotaggio adesso vedono nel traffico di cocaina un’attività meno rischiosa e più redditizia, vista la consistente domanda di mercato. Si è attivato dunque un meccanismo di do ut des per il quale i malviventi locali forniscono alle mafie relazioni sul territorio e queste ricambiano insegnando agli autoctoni il metodo mafioso. È in atto allora un processo di ibridazione, uno scambio di simbologie, pratiche e know-how che ha per posta la conquista del consenso sociale delle periferie: capita così che i gestori delle piazze di spaccio prendano ad interessarsi degli abitanti del quartiere e dei loro bisogni, a dare lavoro per ripulire la zona e a fare la spesa per i più indigenti. Si è di fronte ai più classici elementi dell’ideologia mafiosa, volti a nobilitare le attività criminali con fini benefici e assistenziali. A questo punto il rischio che una banda locale si tramuti in una mafia vera e propria diventa serio, come anche che gli spazi democratici nelle aree più degradate si restringano a favore di sottogoverni criminali.

Certo, perché si formi un gruppo mafioso devono realizzarsi altre condizioni: rapporti organici con la politica, esistenza di strutture organizzative formalizzate, uso regolato della violenza. Eppure, le dinamiche di alcune aree laziali disegnano a questo proposito scenari preoccupanti. Laddove il controllo del territorio, da intendersi anche e specialmente come conquista della fiducia (o della rassegnazione) popolare, passa dalle istituzioni legittime a gruppi mafiosi o che vanno “mafizzandosi”, i meccanismi politico-rappresentativi e il tessuto economico ne risultano pesantemente deformati. Se il sistema repressivo starà al passo delle nuove tendenze, giovandosi dell’esperienza pluridecennale di lotta alle mafie, non è dato sapere. Di certo si tratta di una sfida tra le più decisive del prossimo futuro.

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