Università degli Studi di Pavia

Il carattere irreversibile della multiculturalità che connota le moderne società occidentali, determinato dai processi migratori degli ultimi decenni e dalla globalizzazione mondiale, si traduce nella coesistenza, sullo sfondo del tessuto sociale preesistente, di comunità e minoranze portatrici di differenti culture, valori e fedi religiose e nella quotidiana manifestazione di altrettante espressioni di diversità identitaria. Fra queste ultime si annovera con una certa appariscenza il simbolo religioso e culturale del velo islamico che, adottato dalle donne di fede musulmana, può presentarsi sia in una più frequente versione parziale, che lascia scoperto il volto, che in una più rara variante integrale, con conseguente completo occultamento della persona che lo indossa.

Nel corso degli ultimi vent’anni le politiche europee di gestione della società multiculturale ed in particolare dei conflitti generati dalla coesistenza tra fedi e culture differenti nei medesimi ordinamenti giuridici, ha spesso condotto molti Stati ad adottare provvedimenti legislativi tesi a vietare o comunque a restringere la possibilità di utilizzare il velo islamico, specie quello integrale (noto come burqa e niqab) negli ambienti pubblici, adducendo svariate motivazioni. Queste ultime sono generalmente riconducibili alla tutela della sicurezza pubblica, per l’impossibilità di immediata identificazione della persona, della dignità femminile e dell’esigenza di vivere insieme in una società nella quale sia facilitata l’interazione fra gli individui, grazie ad una comunicazione a volto scoperto.

Diversamente da molti ordinamenti giuridici (Francia, Belgio, Austria, Danimarca) dove il divieto di presentarsi negli spazi pubblici a volto coperto è previsto in apposite leggi di natura penale, in Italia il divieto del velo integrale riguarda solo alcune tipologie di edifici pubblici, come ospedali o strutture regionali e trova la propria collocazione in alcuni regolamenti adottati, ad esempio, dalle Regioni Lombardia, Liguria e Veneto.

Attualmente però, il regime di emergenza sanitaria imposto dalla pandemia con la conseguente imposizione normativa, a livello mondiale, di presidi sanitari per la copertura del viso per la tutela della salute pubblica sta facendo emergere alcuni interrogativi riguardo all’opportunità, o piuttosto alla ragionevolezza, del mantenimento in vigore di questi provvedimenti restrittivi della libertà religiosa individuale. Evidenti, infatti, sono i problemi di coerenza giuridica, se non di vera e propria schizofrenia normativa, nei riguardi del divieto di velatura del volto nei luoghi pubblici all’interno degli ordinamenti che hanno optato per la sua adozione, dal momento che il medesimo contegno, costituito dall’atto di indossare una protezione davanti il viso, è contemporaneamente oggetto di imposizione e di divieto normativo.

Si immagini, infatti, il caso di un’autorità di pubblica sicurezza che, fermando per un controllo una donna per l’utilizzo di un burqa o di un niqab in una strada pubblica, o in Italia in un edificio regionale lombardo o veneto, le contesti la violazione della normativa “antivelo”, mentre intanto, tutto intorno, altre persone si rendono ugualmente irriconoscibili, indossando presidi sanitari per la protezione del proprio viso, magari associati ad un copricapo e ad un paio di occhiali da sole.

La problematica circa la non chiara definizione di quali coperture del volto siano in questi Stati europei attualmente ammissibili si aggrava, inoltre, laddove ci si soffermi a riflettere sul fatto che, spesso, la carenza di dispositivi di protezione individuale non lascia alle persone altra scelta se non quella di utilizzare rimedi di fortuna per schermarsi il volto, come ad esempio sciarpe, fazzoletti e foulard, rendendo così tale comportamento ancora più somigliante a quello posto in essere da una donna musulmana che scelga di indossare un burqa o un niqab.

Vi è poi un ulteriore elemento di riflessione che induce a considerare, quanto meno, “pericolanti” le argomentazioni giuridiche sinora utilizzate a sostegno dei provvedimenti interdittivi delle forme di velatura integrale. Occorre, infatti, segnalare che nel 2014 la legge francese n. 1192 del 2010, ovvero la prima della serie di leggi europee rivolte a proibire questa espressione religiosa, è stata oggetto di una importante controversia giudiziaria dinnanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che si trovò in quella occasione a giudicare delle rimostranze di una giovane cittadina francese di fede islamica impossibilitata a tenere quel preciso comportamento.

In quella sede i Giudici europei affermarono che l’unico vero argomento che può legittimare gli Stati a proibire l’uso nei luoghi pubblici di tipologie di abbigliamento completamente occultanti il volto delle persone è quello del “vivere insieme”, ovvero in un ambiente in cui sia agevolata l’interazione sociale attraverso l’obbligo di mostrare il proprio volto.

Il concetto del “vivere insieme”, all’epoca giudicato idoneo dai giudici di Strasburgo a limitare il diritto di libertà religiosa individuale, potrebbe però essere esposto ad importanti implicazioni derivanti dalle attuali misure per il contenimento del contagio.

Le nuove esigenze sociali imposte dall’epidemia di Covid-19 stanno infatti riscrivendo i requisiti minimi per una sana interazione sociale, oggi non più, necessariamente, a viso scoperto, dal momento che i cittadini, italiani ed europei si stanno progressivamente abituando non solo a vedere nei luoghi del vivere comune persone mascherate fin sopra il naso ma, probabilmente, anche a lasciare alle spalle quella sensazione di disagio legata alla circostanza di non poterne leggere le espressioni facciali.

Questa considerazione sembra offrire sufficienti spunti per prendere in considerazione l’eventualità che il principale argomento, sinora ritenuto idoneo, a legittimare le restrizioni ad una delle manifestazioni più evidenti della società multiculturale si esponga, nel futuro, ad essere oggetto di verifiche in ordine alla sua consistenza. Una simile ipotesi potrebbe, infatti, verificarsi proprio a causa della natura indefinita della nozione del “vivere insieme” la quale, non rappresentando una categoria giuridica vera e propria, costituisce allo stato dell’arte una nozione astratta e, come tale, presumibilmente influenzabile dai cambiamenti della realtà sociale.

Non sembra quindi azzardato domandarsi se le condizioni del “vivere insieme” in una società multiculturale, ove molteplici sono le espressioni dell’identità individuale nelle sue varie declinazioni, religiose e culturali, siano destinate a mutare in presenza di un’epidemia la cui durata complessiva non è al momento possibile preventivare e che impone alle persone mezzi di copertura del viso come requisito minimo per una sana prosecuzione delle dinamiche di interazione sociale, sia nei luoghi pubblici che in quelli istituzionali.

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